Via Toledo

   La metropolitana di Napoli è la più suggestiva del mondo. Non ci sono due stazioni uguali e ognuna ha un suo fascino particolare, qualcosa che la rende unica. Come una bella donna. E come tutte le belle donne si fa attendere. Si fa desiderare. Sa bene che siamo innamorati di lei e siamo disposti a perdonarle tutto pur di averla.

Così fece quel giorno in cui avevo appuntamento con Mirna ed ero in ritardo, come al solito. Mentre salivo le scale della stazione di piazza Dante, sentivo rimbombare nelle orecchie le parole che mi diceva sempre: «La prossima volta che arrivi in ritardo, non mi vedi più».

Feci uno scatto felino tra la folla e uscii dalla stazione. Guardai l’orologio: le sei e cinquantacinque. Non ce l’avrei fatta mai ad arrivare a Piazza Plebiscito per le sette. Cominciai a camminare a passo svelto, ma avevo qualcosa che non andava nelle gambe come se ci fosse il burro. Più cercavo di correre e più mi sembrava di rallentare. Pensavo con terrore a Mirna. Stavolta non me l’avrebbe perdonato, ne ero sicuro. Lei era fatta così. Precisa, rigida, tutto d’un pezzo. Con lei bisognava rigare dritto, non si poteva sgarrare. Continuai a correre tra la folla e a guardare l’orologio. Alle sette e dieci stavo ancora all’altezza di Pintauro, quello delle sfogliatelle.

Non potei fare a meno di fermarmi. Il profumo che usciva dalla pasticceria era per me una specie di droga. Mi ammorbidiva il cervello. Non so cosa avrei dato per mangiarmi una bella sfogliatella riccia, sebbene Mirna mi rinfacciava che avevo la pancia e a ogni compleanno mi regalava l’abbonamento in palestra. Mi feci forza e decisi di proseguire. Ma le mie gambe ancora una volta non mi diedero ascolto e in un attimo mi ritrovai davanti a tutto quel ben di dio. Tra quei profumi mi persi. Vabbè, pensai, ritardo solo di qualche minuto, tanto la sfogliatella me la mangio camminando camminando. Andai alla cassa. Davanti a me c’era una grassona che stava frugando da un tempo interminabile nella sua borsa in cerca di moneta spiccia.

«Serve qualcosa?» le dissi a un certo punto.

«Ha dieci centesimi?» rispose lei e si voltò. Rimasi di stucco. Era una mia vecchia compagna di liceo.

«Giulia! Che sorpresa».

«Mario, che ci fai qui?» esclamò lei.

«Quello che ci fai tu» dissi e tutti e due scoppiammo a ridere.

«Vai al banco a prendere le sfogliatelle, che ci penso io a pagare» le dissi.

Non se lo fece dire due volte. Un attimo dopo era già di ritorno con le due paste fumanti.

«Vado pazza per le sfogliatelle» disse lei addentando la prima.

«Anche io, solo che cerco di moderarmi per non ingrassare».

«Ma che te ne frega, stai così bene» esclamò lei. Poi con aria seria aggiunse: «Gli uomini magri non mi piacciono, sono tristi».

Io diedi il primo morso alla riccia e assaporai fino in fondo il contrasto tra il dolce della crema e il croccante della sfoglia. Stavo al settimo cielo. Mangiai piano, cercando di godermi quel momento il più possibile.

Quando finimmo io e Giulia ci guardammo negli occhi come due innamorati.

«Ce ne facciamo un’altra?» disse a un tratto.

«Certo» risposi e andai alla cassa, mentre lei già cominciava a ordinare.

Quando finimmo ci avviammo insieme vero piazza Plebiscito.

All’altezza della galleria Umberto, si fermò di botto.

«Là, c’è una trattoria dove fanno la pasta a fagioli che è una favola» e mi indicò una piccolo locale incastonato tra due palazzi. «Anche io faccio bene la pasta e fagioli» continuò a bassa voce, «dentro ci metto il lardo e un po’ di pepe nero e, soprattutto, la faccio cuocere a fuoco lento, il vero segreto».

Io ascoltavo Giulia estasiato. Ormai avevo dimenticato Mirna, l’appuntamento e tutto il resto. Nella mia testa c’era solo un paradiso fatto di pranzetti succulenti e fiumi di Aglianico, il mio vino preferito.

Arrivati davanti al Gambrinus non ci fu nemmeno bisogno di parlare. Entrammo direttamente, come fosse una cosa naturale, e ordinammo due caffè.

«É buonissimo» disse lei mentre girava con devozione il cucchiaino nella tazzina.

Io annuii senza parlare.

Lo bevemmo in religioso silenzio come si fa per le cose importanti. Quando uscimmo ci apparve piazza Plebiscito in tutta la sua maestosità. Ci sedemmo sulle scale davanti alla basilica. Giulia estrasse dalla borsa una vecchia felpa e la mise a terra in modo da non sporcarci. Quando si abbassò non potei fare a meno di notare che aveva un bel sedere. Mi venne in mente che al liceo la chiamavo culona e lei si incazzava sempre. Sorrisi tra me e me.

Adesso, davanti a noi, il tramonto abbracciava tutta la piazza colorando di sfumature rosa il palazzo reale, le statue equestri, la galleria principe Umberto, il teatro San Carlo. Una strana calma mi prese. Una sensazione di pace che non provavo da tempo. Come se il senso della vita fosse tutto lì, nelle cose semplici come il tramonto, le sfogliatelle, un buon caffè…

Fu allora che mi ricordai di Mirna. Mi guardai intorno per vedere se stesse ancora ad aspettarmi da qualche parte.

Non c’era. Per fortuna.

tratto da:

di Ferdinando Gaeta

 

 

 

 

 

 

foto di alegri / 2012-09-12
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