Il ‘Novecento’: un racconto /Seconda Parte/

Appunti sparsi sul ‘900 letterario e non solo

3.

Il Novecento inizia con l’introduzione di alcune novità, frase banale quanto si vuole ma vera. Si tratta di novità sostanziali, novità che porteranno cambiamenti epocali, finalmente.

Come sempre, anche in questo caso, ci sarà chi capirà il momento e chi no, chi penserà in grande e chi in piccolo, e non sempre la scelta di stare nell’uno o nell’altro campo avverrà sulla base di idee ben precise. A volte agirà l’istinto, a volte il bisogno, a volte semplicemente il caso.

Una di queste novità,  all’inizio dell’avventura novecentesca,  è la compravendita dei diritti di opere letterarie per il grande schermo. Giovanni Verga e Guido Gozzano (che hanno più di quarant’anni di differenza), ai quali verrà chiesto per prima di lasciare che le immagini entrino nella letteratura, contaminandola, lo considerano degradante, o comunque non opportuno. Insomma, non sono attrezzati ancora per decidere; sono titubanti, presi dai dubbi in tutti e due i sensi, sia per il sì che per il no, ma alla fine rifiutano.

Gabriele D’Annunzio, invece,  senza pensarci troppo accettò subito di aprirsi e di andare incontro al nuovo. Lo fece per soldi? Forse, ma non solo. Intanto il vate si accredita l’intuito di aver capito per primo cosa sarebbe avvenuto nel prosieguo del secolo. Sicuramente l’aveva capito, ed era stupido resistere, tanto più con armi spuntate, quasi inservibili.

Ma ormai aprirsi al nuovo era comunque un dovere, tanto più che il tempo lo si era perso durante alcune fasi dell’ottocento, e c’era bisogno in qualche modo di recuperare.

 Arrivano le idee di Nietzsche (1844-1900)  e di Darwin (1809-1882), per quest’ultimo l’uomo è il prodotto della teoria dell’evoluzione della specie e della selezione naturale;  per l’altro il dionisiaco (il dirompente, il trasgressivo)  non è visto come qualcosa di altamente negativo, fa parte dell’uomo, completa la persona avvolgendolo nella sua pazzia. Roba da far tremare le vene di chiunque, ma specialmente quelle di un’Italia bigotta che sta affannosamente cercando una sua identità, una sua lingua, un suo modo d’essere, un suo sentire comune (sul quale bisognerà ritornare).

Ma non finisce qua. Iniziano a pervenire bollettini con sopra scritte le idee di un certo Carlo Marx. Il capitalismo è un’oppressione, il comunismo la libertà. Soggiornano in Italia persone come  Bakunin (1814-76. Nel 1865 soggiorna a Napoli), teorici dell’abbattimento dello Stato, dell’anarchia;  arrivano  le idee di Herzen (1812-70) nobile e populista, oppositore degli Zar, anche lui soggiornò in quegli anni in Italia.

Milano nasce e si afferma come centro imprenditoriale. Nasce anche nel 1876 il Corriere delle Sera, il grande giornale italiano, nell’anno in cui al potere – al governo –  va la sinistra di Depretis. C’è come un respiro, un’apertura, una speranza (ma entra  oltre  a questo, una parola nuova, trasformismo,  che sembra inventata da noi italiani, anche se non è così).  Intanto, per chi ha a cuore la scuola, torna al ministero dell’istruzione, Francesco De Sanctis, anche se per poco, saranno due  spezzoni di tempo perché poi  nel 1883 morirà. ( Però farà in tempo a dire due cose, queste: ‘chi parla di scuola è destinato all’eternità’…e ‘sarei pronto a dar via una facoltà universitaria in cambio di qualche istituto professionale in più’.

Sono gli anni in cui consolida su questa scia l’asse Milano-Roma. L’A1 ancora non esiste, ma il tracciato mentale già c’è.

Roma oltre che essere la capitale della nazione è anche una città ricca di fermenti. Nascono, si sviluppano e si stampano riviste e inserti culturali; collaborano scrittori, artisti e musicisti, grazie anche all’impegno di piccoli editori, uno dei quali si chiama Angelo Sommaruga. Insomma, in queste due città c’è fermento e fervore culturale.

Solo Napoli con F. De Sanctis (1817-83), A. Labriola ( 1843-1904), B. Spaventa (1817-83), L. Settembrini (1816-76), B. Croce (1866-1952) si può permettere di competere con l’asse appena citato.

Nonostante tutto, comunque,  l’Italia si trascina dietro un’immagine di sé  troppo tradizionale e proprio negli anni  tra il 1861 e il 1915 cerca di rifarsi. Capisce il suo limite e attraverso un passaggio tutto sommato inconscio,  comprende che deve far entrare nel suo vocabolario parole nuove e anche un po’ di magia: e la parola magica, capace di svecchiare un mondo, una concezione, un’idea, era la parola CONTAMINARE.

Contaminare come rimescolare le carte,  far dimenticare quello che è stata la nostra letteratura o gran parte di essa.

Il primo passo per arrivare a dire e fare qualcosa di diverso è l’affermazione del genere Romanzo, al posto della solita Poesia. Qualcuno ha detto, e noi lo prendiamo per buono perché ci tocca, che si afferma il Romanzo quando si mette da parte l’io. Quando si uccide la voglia di parlare di sé, di mettersi davanti a tutto e a tutti. Quando l’autobiografia non  travalica il racconto. Insomma, quando  si elimina la voglia di parlarsi addosso, si arriva al romanzo, e così fu anche in Italia.

Certo,  avevamo già avuto il primo nostro grande romanzo, e nemmeno tanti anni prima, Manzoni ce lo aveva regalato e noi ne eravamo orgogliosi,  sia per il contenuto che per la forma.

/Però, pensiamo un momento  alla battuta del film La scuola di Lucchetti,  quando il prof interpretato da Silvio Orlando dice che mentre in Italia Manzoni (1785-1873) scriveva e riscriveva il suo unico romanzo, in Russia  c’era chi come Dostoevskij (1821-81)  infilava questi titoli, tra gli altri: Umiliati e offesi, Memorie del sottosuolo, il giocatore, Delitto e Castigo, L’idiota, I demoni, L’adolescente, I fratelli Kamamazov, poi una serie infinita di racconti e alcuni saggi. Oppure Tolstoj (1828-1910) di qualche anno più giovane, che  si era presentato con opere come, Guerra e pace, Anna Karenina, Resurrezione, Sonata a Kreuzer e una serie infinita di racconti. Qui ci fermiamo senza considerare le opere infinite né  di Checov che nasce nel 1860, né di Gogol che viene però prima essendo  nato nel 1809/

Paradossalmente però, l’opera di svecchiamento di cui stiamo parlando avviene,  in Italia, attraverso l’apporto di due luoghi distanti e opposti, uno al nord e l’altro a sud, per onorare sia la storia che la geografia della nostra letteratura,  come fosse per comprenderla tutta…Stiamo parlando di Trieste e la Sicilia.

Da Trieste ci sono Svevo e Saba, il romanzo e la poesia, con novità forti nell’uno e nell’altro campo. C’è  Svevo che con Zeno ci proietta in Europa direttamente, avendo recepito sia la psicanalisi, sia le idee di un certo James Joyce, insomma siamo al centro del dibattito culturale, non più ai margini.

E poi c’è la Sicilia con Verga, Capuana, De Roberto e il giovane Pirandello. Sì è vero, i siciliani di allora in maggioranza si spostavano per studiare e lavorare  in continente,  a Roma e Milano, ma spesso però ritornavano  o comunque scrivevano dei loro luoghi di partenza.

/inserto

Il concetto di geografia e storia della letteratura italiana è stato introdotto in Italia da Carlo Dionisotti con un libro uscito nel 1967 in cui si trovava il saggio (da  cui il titolo). Ma della sua idea ne aveva già parlato nel 1951. Comunque,  al di là delle semplificazioni che pure ci sono state sulla questione, semplificazioni portate ad arte sul terreno della regionalizzazione della nostra letteratura, la risposta più efficace e convincente  l’ha data in un suo saggio Asor Rosa, quando ci spiega che per forza di cose la nostra letteratura era regionale, visto che non c’era unità fino alla seconda metà dell’800. Quello che ci ha tenuto uniti come letteratura è stata la lingua (da sempre al centro delle dispute, su come dovesse essere). Dante, Bembo e Manzoni sono i tre poli che in secoli diversi hanno affrontato la questione, tanto che alla fine tutti gli scrittori si sono inventati una lingua, cosa che in altre letterature  non c’è, non si riscontra./

Dunque gli scrittori italiani si confrontano alla pari con la cultura straniera, questa volta si va oltre l’invocazione della signora De Stael* di qualche decennio  prima.

* « Dovrebbero a mio avviso gl’italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini. »

(Madame de Staël, Sulla maniera e la utilità delle Traduzioni, traduzione di Pietro Giordani)

(Madame De Stael, nel 1816 si inserì in Italia nella polemica tra classicisti e romantici con l’articolo da cui è presa la citazione).

Questa volta, però,  il confronto ci fu sul serio,  specialmente con la Francia.

Si spostarono a Parigi,  tra gli altri:  D’Annunzio, Marinetti,  Savinio, De Chirico, Soffici, per un po’ Ungaretti … e seppure in termini e modi diversi,  l’apporto di conoscenze,  di reciproca influenza porterà  l’Italia ad entrare in tutto e per tutto nella modernità.

Eppure fu rilevato  in quello stesso periodo che una fetta considerevole  di italiani non era contenta di tutto ciò. O meglio, quello che oggi con la distanza degli anni sembra un fatto normalmente acquisito, cioè lo svecchiamento di un sistema culturale attraverso l’incontro con altre culture, allora venne criticato, non fu visto e valutato nella sua giusta dimensione.

A questo proposito qualcun altro si chiede (allora come adesso) se non sia proprio questo il difetto dell’Italia, cioè quello di  non vedere le positività che sono evidenti e invece  accentuare le negatività, una sorta di esercizio critico autolesionistico, un   mettersi da soli il bastone tra le ruote,  che sembra essere una nostra caratteristica.

Ma chi erano gli autori della condanna  di tutto quello che stava avvenendo in Italia?

In primo luogo erano i mazziniani, i socialisti e i cattolici intransigenti. Perché? Essenzialmente perché per loro non essere arrivati alla Repubblica ed essersi fermati al Regno, era stata una sconfitta. Con questo atto mancato in pratica si era tradito il Risorgimento, il pensiero dei padri era stato travisato. E tutto ciò fu assorbito dalle nuove generazioni che continuarono con questa critica. Loro, i nuovi,  con una certa durezza  alimentavano  una sorta di insofferenza per coloro che avevano voluto ed attuato l’Unità d’Italia.

Uno dei sintomi che vien fuori  da  tale atteggiamento fu l’acceso antimanzonismo che si ebbe nel secondo ottocento. Gli scapigliati in testa contestavano a Manzoni, l’essere diventato, con i Promessi Sposi, il simbolo dell’unità d’Italia. Tanto più che le sue idee linguistiche, il toscano vivo, erano diventate subito le linee ispiratrici della politica educativa che il Regno tentava di impartire. Quanto riuscendoci, non si sa. Ma intanto le linee guida c’erano, ed erano quelle di Manzoni. E questo bastava ad alimentare negli oppositori il loro sentire di essere in disaccordo.

Tanto più che in generale  le contraddizioni  erano presenti ed erano evidentissime: Roma a fine secolo  con i suoi scandali di politica e affari e con la imperante,  già allora, speculazione edilizia,  certo non aiutava. E pur tenendo conto che tra l’ideale e il reale, tra la poesia e la prosa,  c’è di mezzo il mare, non si capiscono lo stesso alcuni atteggiamenti denigratori che poi a conti fatti avranno ripercussioni negative.

Intanto De Amicis, che pure aveva tendenze socialiste, definisce in quegli anni la letteratura italiana ‘povera, poverissima’.  Croce dal canto suo e dall’alto della sua autorità, si impegna a censurare ogni minimo tentativo di arrivare alla modernità che, secondo lui,  poteva sovvertire le gerarchie tradizionali tra i generi e i saperi. Gli steccati che Croce innalza altissimi tra le discipline sono un segnale della  sua cautela ad accettare le novità. Naturale, allora,  che uno spirito libero come Marinetti si inventi il Futurismo per cercare con un balzo felino di superare l’arretratezza,  senza correre il rischio di restare impantanato nelle situazioni.

In effetti,  al di là dell’elenco delle contraddizioni, si sta solo dicendo che il senso di scontentezza che si provava in Italia, il non riconoscere che molto era stato fatto in quei primi 50 anni,  date anche le condizioni di partenza, generò o alimentò una sola componente, vale a dire l’ala nazionalistica della popolazione: venne fuori e si affermò   il patriottismo nazionalistico.

Siamo nella fase che Vittorio Foa ha definito del nazionalismo democratico, cioè è ancora in atto la distinzione tra un nazionalismo fatto di sano patriottismo e quello che tra poco, un decennio dopo o poco più, si affermerà e che di democratico non avrà più nulla.

Entra nelle menti,  anche più acute,  che l’Italia potrebbe trovare la soluzione ai suoi problemi  colonizzando  altri e interi  territori. In questo modo si pensa si possano risolvere  i problemi interni,  mettere finalmente d’accordo tutti e arrivare ad una visione comune, ad un sentire comune, allargando i propri confini. È un’ipotesi che sta sul tavolo e inspiegabilmente entra nell’immaginario di una parte del popolo italiano.

Poi, nel discorso del 1911 dal titolo La Grande Proletaria si è mossa,  Giovanni Pascoli si incaricherà di dire  parole enormi sul nostro futuro, su quando avremo conquistato la Libia: porti, terre, case che saranno nostre, spazi infiniti da coltivare, e ciliegie da assaporare, lavoro per tutti. Il sogno di colonizzare che è già  sempre vivo e vegeto viene rinforzato dalle sue parole.

Alla fine, proprio lui non riuscirà a vedere  il nostro futuro perché morirà  prima, nel 1912. Mentre, invece,  la quasi sicura catastrofe della guerra di Libia sarà solo l’inizio, perché appena dopo ci sarà l’immensa catastrofe in termini di vite umane della grande guerra. (vedi Intermezzo_1 ).

Un inciso per rilevare un paradosso o una contraddizione  (a seconda dei casi) se ce ne fosse bisogno: nell’ultima parte della sua vita, Pascoli,  insieme a D’Annunzio e Carducci,  diventerà  una dei ‘grandi vati’ della nazione.

Intermezzo_2_

La lettura del libro di Vittorio Foa, Questo Novecento, secolo che lui ha attraversato tutto essendo nato nel 1910 e morto nel 2008, parla,  come si capisce dal sottotitolo,  di ‘passione civile e di politica come responsabilità’, che (oggi, adesso)  sembrano parole desuete. Foa  mette in risalto una cosa molto semplice, che è questa: ‘Ogni volta che in Italia c’è stato un anelito di libertà, è intervenuto qualcosa o qualcuno a ricacciarlo indietro, in vari modi’. In sintesi, nel corso del secolo, spesso ci sono stati momenti in cui,  per vari motivi,  l’Italia aveva la possibilità di fare passi avanti notevoli, o anche solo di stare al passo con i tempi, o solamente di recuperare il tempo perduto ( anche a livello letterario), ma ci sono state forze contrarie,  forze antiche e tradizionali, o solo primitive e paurose di un avvenire democratico, che  in qualche modo venivano fuori e facevano perdere tempo. Perdere tempo ad una nazione.

di Francesco Di Lorenzo

(CONTINUA)

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