Legge 219

Nella casa si sentono rumori molto forti. È notte ed è tardi. Può mai essere il terremoto? Io nell’80 ero appena nato e quindi il terremoto non lo ricordo. Però me lo hanno raccontato, deve essere stato veramente brutto. Questo non può essere il terremoto. Certo, sento bicchieri che cadono, mobili che si rovesciano, ma il letto non si muove. Scendo dal letto correndo e vado a vedere di là. Faccio finta di non saperlo, ma so già cosa sta succedendo. Stanno litigando di nuovo. “Me ne vado, hai capito che me ne vado?”, è la voce di mia madre. “No, tu non te ne vai da nessuna parte”, questa è la voce di Renato, l’uomo che vive con lei. Mio padre non c’è, mio padre viene a prendermi solamente il sabato e qualche volta la domenica. Mio padre non è così, mio padre è bravo.  Lui non la fa piangere mia madre, e poi è pure più alto, è un armadio.  Lei sta in vestaglia o in camicia da notte, seduta in cucina con le braccia sul tavolo, che piange, abbandonata. Urla con una mano nei capelli. Lui sta al centro della stanza di spalle. Sta dando un calcio nell’aria, ma si capisce che le ha tirato i capelli perché nelle  mani, quando si volta, ne vedo una ciocca. Li butta a terra, scuotendoli dalla mano e ci sputa sopra. È tutto sudato, ha gli occhi lucidi, sicuramente è ubriaco di nuovo. Appena mi vede mi tira un calcio, subito. Non mi faccio male perché mi raggiunge appena, mi sono spostato di quel poco. A questo punto mia madre urla più forte ancora, “ non toccarlo, hai capito non toccarlo” . “E chi te lo tocca”, e mi spinge via con forza. “Vattene a letto”, mi dice. Corro per il corridoio e prima di entrare nel letto mi si forma qualcosa alla gola. Qualcosa, una palla che mi sta soffocando. Ho paura, non che cosa sia, mi sembra di morire. Sotto le coperte mi agito, cerco di gridare. Mi scoppia all’improvviso un grande pianto. Un pianto così grande che non riesco a frenare. Sento le lacrime calde, quasi bollenti sulla faccia, e poi il sapore salato nella bocca. Cerco di non farmi sentire, anche se vorrei che mi sentissero. Metto la testa sotto il cuscino e continuo a piangere, mi lascio andare a piangere. Mi sento bene quando piango, mi sforzo di continuare a farlo. Non so per quanto tempo continuo a sforzarmi. Ho paura di finire, di alzare le coperte e sentire di nuovo le urla, i pianti, i rumori nelle altre stanze. Ma il mio pianto è finito. Sto così, in silenzio, sotto le coperte. La testa è infuocata, sento le orecchie incandescenti, quasi non respiro più. Sarebbe bello stare per sempre così, senza dover cacciare la testa fuori. Ma butto via di colpo la coperta, devo sapere se stanno ancora litigando. Non sento niente. Poi li sento parlare a bassa voce. Piccoli lamenti. Bisbigli. Ma che fanno? Litigano? Parlano? Non si capisce, non capisco io. Poi sento la voce tuonante di lui,  “sta stronza” e schiaffi, urla, sedie che rompono un vetro. Rimango fermo nel letto. Immobile. Comincio a tremare. Non so che fare. Vado di là e la difendo, ho deciso. Ma tremo, due lacrime mi scendono dagli occhi. Arriva una macchina della Polizia, sento la sirena. Corro alla finestra della mia cameretta. Vengono proprio nel mio palazzo, ora li chiamo per far difendere mia madre. Di là,  non sento più grida e rumori. Sento i poliziotti che salgono le scale. Bussano alla porta. Renato va ad aprire. “Come?”, dice. Mi affaccio nel corridoio e vedo la scena. Prende un bastone di ferro che mettiamo dietro la porta, e sta correndo in cucina per picchiare mia madre. Dai suoi occhi capisco che vuole ucciderla. Il sangue mi si ghiaccia. Urlo. Tre uomini in divisa lo fermano e gli mettono le manette. Ride di rabbia, “l’ho sempre saputo che sei una stronza”, dice ad alta voce. Dalla finestra della mia cameretta, vedo come lo fanno salire in macchina. Partono, ma non accendono la sirena. Solo la luce azzurra del lampeggiante che rischiara tutto il palazzo. Ora c’è silenzio. Vado in cucina. C’è lei che piange, le  mani nei capelli e i gomiti appoggiati al tavolo. Ha un poco di sangue vicino alla bocca che luccica. Ce l’ha anche sulle mani, ma è secco. Metto le mani sulla sua spalla, vorrei abbracciarla. Lei mi scosta, e con il braccio mi spinge via, “ va a letto”, mi dice. Me ne vado, la sento che piange. Sto a letto, nel buio, con gli occhi aperti. Non mi viene né da piangere, né mi viene il sonno.     

di Francesco Di Lorenzo

 

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