Via Paal

(Cent’anni dopo)

paal 3Un’unica avvertenza. Se non si è letto il romanzo “I ragazzi delle via Paal ” di Ferenc Molnar, il testo che segue potrebbe risultare di difficile comprensione. O meglio, forse non di comprensione si tratta, ma, diciamo, di difficoltà ad entrare nell’argomento.Chi ha amato il romanzo ha la strada spianata ma non è detto che tutto ciò che leggerà sarà di suo gradimento.Non è escluso che chi leggerà con la mente sgombra, o perché non conosce le vicende o perché le ha dimenticate, possa apprezzare il tentativo.

 

0.1

Via Paal, i ragazzi, Budapest. Oggi non è che una stradina tra due file alte di palazzi. Ci sono le auto ferme ai lati dei marciapiedi. Misura centoquarantacinque passi, un centinaio di metri. Si trova a pochi minuti dal centro turistico della città, la lunga via Vaci, tutta negozi, vetrine, bar e attrazioni. Via Paal conserva poche o nessuna traccia degli avvenimenti che si svolsero un tempo, i muri dei palazzi sono sbrecciati, i buchi nell’intonaco lasciano intravedere i mattoni. C’è, però, un certo decoro pulito, sobrio ed essenziale, che lascia per terra le macchie e l’odore di cacca e pipì dei cani, ma porta via il resto.All’angolo c’è una lapide, di pochi anni fa, scritta anche in italiano, ricorda una trasmissione di alcune reti televisive Europee che si chiamava “I giovani incontrano l’Europa”. È dedicata chiaramente a Ferenc Molnar e ai ragazzi della via Paal, insieme a tutti i ragazzi delle periferie del mondo. Evidentemente al loro destino di smettere di essere periferici e così finire di giocare in pace.Appena sul corso principale, usciti da via Paal, c’è una gelateria italiana. Allora, nel romanzo, fuori dal liceo frequentato dai giovani protagonisti, l’uomo che vendeva dolciumi era italiano. Chissà… coincidenze che non significano nulla.I luoghi e le strade dove si svolgevano alla fine del secolo scorso le vicende dei ragazzi della via Paal si possono percorrere a piedi in un paio d’ore. Se poi, mentre si cammina, all’incrocio di una strada si scorge la chioma scura di Franco Ats, la testa biondina di Nemescek, quella di Giovanni Boka, beh, niente di strano…coincidenze che non significano nulla.

paal 1

1.1

ATS

 Ma tu vedi un po’ cosa mi doveva capitare. Ricordare a tanta distanza di anni gli avvenimenti di un periodo così lontano. A stento i miei ricordi riescono a focalizzare. Sì, le camicie rosse, oh, il rosso, non l’ho mai potuto soffrire. Pensate che una volta in una videoteca il tizio che vendeva le cassette mi voleva appioppare non so che tessera e ce n’erano di vari colori, allora lui mi fa, “te la do rossa”, e io “ma con chi ti credi di parlare, brutto stronzo, con tuo padre?, il rosso a me?” e gli ho mollato un cazzotto sulla mascella. Sono stati gli amici, i miei fidati, che stanno sempre con me, a trascinarmi via, altrimenti a quello lì non so cosa altro gli avrei fatto.Ma non sono violento, è che quella volta, non so perché, il sentire “rosso”, mi ha fatto saltare i nervi. Generalmente queste cose mi lasciano per lo più indifferente, o in alternativa, schifato. No, gli altri non so neanche che fine hanno fatto, né mi interessa. I Pastzor chi? I due fratelli? No, sinceramente non so dove siano finiti. È che io ero il bello del gruppo, gli altri, beh, diciamolo, erano grassi, piccolini, sformati, mi ricordo di quello piccolino, Nemecsek, era tanto mingherlino che poi morì subito, alla fine del romanzo. Si lo so, non era nella mia squadra, ma non è che facesse troppa differenza, io potevo essere, se solo volevo, il capo di tutti, anche degli altri. Io però ho quest’anima poetica che ad un certo punto, la smetto. La smetto di comandare, di voler vincere, e mi comporto come se fossi un altro, accetto la sconfitta, concedo l’onore delle armi, se voglio so anche sottomettermi. Il motivo è facile, sento che agli altri non possono raggiungere la mia perfezione, allora mi dico, ma perché non dargli qualche soddisfazione nella vita a questi qui che già ne hanno avuta poco? E ancora di meno ne avranno dopo? E li faccio vincere, ma solo perché in fondo sono io il vincitore… Ora devo andare, mi aspetta la mia solita giornata di lavoro. Sa è faticoso tenere a bada questa specie di cuccioli, che dipendono da me. Ma lo sa a quanta gente dò lavoro? Beh, un’infinità. Il mio lavoro è semplice, ho un ufficio in un centro commerciale, due stanze, in una camera ho un divano perché molto spesso mi rilasso, mi addormento, magari quando sono teso mi rilasso con una donna, una delle mie donne. C’era un personaggio importante, sembra americano, non mi ricordo più chi, che quando aveva un impegno importante, appena prima, un minuto prima, si faceva una sveltina con una delle sue donne, e così andava all’appuntamento di lavoro rilassato. Perché gliel’ho detto, ma non lo so, a me vengono in mente le cose e le dico, senza stare a pensarci su…Ma le stavo spiegando il mio lavoro. Mi segnalano in tempo reale tutte le notizie utili per fare soldi. Come? Ho una trentina di collaboratori che stanno in città, sono tutti collegati con il telefonino, appena sanno una notizia se la controllano tra di loro e poi me la passano. Sono notizie, le più diverse, disparate, ad esempio la vendita di una casa, e allora chiamo un grande costruttore che ha già i suoi clienti e la piazzo, oppure che so, la transazione di un negozio, i miei ragazzi mi danno la notizia, io so a chi rivolgermi per piazzare l’affare. No, i ragazzi non vengono mai da me, nel mio ufficio non ce li voglio, mi basta il contatto telefonico, poi incarico qualcuno più fidato, alla conclusione dell’affare di saldare la provvigione. Non ho tempo né per conoscerli, né per scambiare con loro quattro chiacchiere, e poi diciamo la verità, cosa pretendono, gli dò il lavoro e questo già basta. Sì, in questi ultimi tempi in città sono saltate per aria un po’ di auto, c’è stato qualche ferito ma niente di grave, nulla di rilevante, le piccole, solite storie che succedono in tutte le città del mondo. Ora però non ho più tempo per lei. Mi propone un gioco? Va bene, facciamo le pagelle con il voto ai personaggi che mio malgrado si trovano nelle pagine del romanzo. Così, per essere rapidi e sintetici. A Boka un sette, onore alle armi, era pur sempre il mio rivale capo. Nemecsek un bel quattro per farlo impegnare di più. Gereb due. I fratelli Pasztor un cinque pieno, la mediocrità è il loro limite personale. A tutti i ragazzi della via Paal un bel sei e che Dio li accompagni. Tutti gli altri un bel senza voto o non classificato. A me un otto pieno, ma solo perché possa ancora migliorare…addio.

 

1.2

NEMECSEK

Sono diventato quello che volevo diventare, il proprietario di un negozio che si chiama POLICE CENTER. Vendo, in una stradina a poche centinaia di metri da via Paal, indumenti militari, stemmi, divise, qualche pistola giocattolo, altri aggeggi e gadget tipo una custodia per telefonini color grigio-verde-marrone militare come le tute mimetiche, uno sballo. Il mio negozio è pieno di giovani, gli affari vanno molto bene. Un momento, non è vero niente, sto scherzando, è solo un sogno. Io sono morto. E sono morto invano perché appena dopo, vi ricordate? il campo che abbiamo tanto difeso è diventato un palazzo. Sì, lo so, questo lo avete sentito un milione di volte, ma lo voglio ripetere. Sono contento di essere stato l’eroe del romanzo, non capita mica a tutti di essere ricordato per quello che hai fatto, e di aver fatto piangere non so quante persone, e in quanti paesi del mondo mi conoscono? Che sfortuna, però, nascere in una famiglia di poveri diavoli, già segnato fisicamente, io piccolino, magro, come mia madre ( anche mio padre non è che fosse un granché in altezza ). Beh, provateci voi a vivere in una casa così piccolina da non avere il posto per sedersi in pace e studiare. Cos’altro avrei potuto fare se non conquistarmi le posizioni nel cuore di tutti? Ora vi spiego cosa avrei voluto fare nella vita, se non fossi morto. Era un pensiero che mi veniva tutte le sere perché il mio papà a cena parlava di soldi che mancavano. Allora appena a letto non mi veniva da piangere, anzi, ero preso da una rabbia tremenda che qualche sera pensavo seriamente di abbandonare la scuola e di andare a fare il barista. Sì, proprio il barista. Era questo il mio sogno. Poi, però, ci pensavo e cambiavo idea, e mi dicevo ma perché dovrei fare il barista? Non sarebbe meglio diventare un uomo importante? Uno di quelli che quando parlano ti fanno diventare piccolo piccolo, che hanno il carisma, l’importanza, così gliela faccio vedere io a quelli che al liceo non mi prendono in considerazione, e poi a quelli della società dello stucco, quegli stronzetti che mi hanno declassato senza motivo, è vero, lo so, che poi hanno fatto di tutto per farsi perdonare, ma sono arrivati in ritardo, e lo hanno fatto solo perché dovevo morire (nel romanzo)  non certo perché ero stato io l’eroe della battaglia contro le camicie rosse. Provateci un po’voi a subire sempre, e poi a tornare a casa e sentire che le cose vanno così, che sono sempre andate così e così andranno sempre. Che mio padre, lo avrei voluto più fiero di sé, che avesse detto al signor XXX, , per esempio, ma vada a fare in culo lei e il suo vestito, io ho mio figlio che mi sta morendo.  E invece, mentre io spiravo, lui gli cuciva il vestito, perché servivano i soldi per la mia bara… perché quello aveva detto che gli serviva e mio padre tutto avrebbe fatto ma mai, mai e poi mai, avrebbe fatto fare brutta figura ad un suo cliente, neanche se gli stesse morendo un figlio, ma si può? Quasi quasi mi verrebbe da dire che sono contento di essere morto piuttosto che vivere con una famiglia così… Ma non lo dico perché in fondo a mia madre ho sempre voluto bene, più che a mio padre. Avrei voluto avere il carisma di Boka,  era quello che mi mancava, lui non si faceva mettere sotto da nessuno, non aveva paura di niente, ascoltava senza muovere la bocca o gli occhi, e poi non diceva quasi mai delle parole fuori luogo. Io credo che al signore che voleva la giacca nonostante io stessi per morire, lui avrebbe risposto in un altro modo, avrebbe sicuramente pensato di più alla sua dignità di uomo che a non contrariarsi un cliente, per una misera questione di soldi, in fondo. E che esempio avrei potuto prendere da lui, la mia era solo forza della disperazione, se no, non sarei mai andato da solo e sarei salito su un albero, là nel campo delle camicie rosse, all’orto botanico  (neanche quello c’è più lì, in quel posto) per riportare la nostra bandiera al suo posto, nel campo di via Paal. A proposito, quello non fu il bagno fatale, già da alcuni giorni mi sentivo male, sentivo che qualcosa non andava come avrebbe dovuto, il respiro mi si spegneva in gola quando tossivo e sicuramente anche senza quel bagno la polmonite avrebbe fatto la sua piccola vittima, ero già stato scelto, il sacrificio che la mia piccola persona era stato ideato dagli dei, e in subordine dall’autore del romanzo, che lo voglio dire, era un grande scrittore. Basta. Bisogna sempre saperlo descrivere un fatto, tanto più se è un fatto voluto dagli dei, e signore, non vorrei che si offendesse, ma lei, in lei, quel talento non lo vedo, non c’è, altrimenti sarebbe ancora qua a continuare una storia già bell’e finita? Insomma, la sua mancanza di idee si nota eccome, non la può nascondere, provi un po’ a scrivere una storia come la nostra, la mia, oggi, invece di continuare quella di altri… Comunque, il mio coraggio me lo dava il mio capo, volevo a tutti i costi imitarlo, e se mi prendevano in giro non me ne importava niente, io sognavo di diventare come lui un giorno, calmo, riflessivo, rispettato da tutti, e poi anche bello, alto, forte, sicuro, leale con tutti. Il mio essere una persona di carattere, come si dice, non mi veniva solo un poco dai miei genitori, ero diventato di carattere perché non volevo essere sempre l’ultimo, e imitavo questo sì, imitavo quelli che erano più forti di me, talmente che li imitavo che spesso li superavo, volevo sbalordirli, volevo che dicessero ‘ma che bravo ragazzo che è questo Nemecsek’, come è diventato forte, perché voi mi avete conosciuto solo nel romanzo, ma si capisce la mia storia inizia molto prima, e io non ero così come mi avete conosciuto, non ero tanto di carattere prima, anzi, ero portato a fuggire, a non prendermi nessuna responsabilità, volevo vivere una vita tranquilla, senza scosse, ma poi ho capito che così non andava bene, non mi volevo inventare una vita come quella di mio padre, e allora ho deciso di cambiare, ma hai voglia di cambiare quando ormai tutti ti conoscono in un modo, è difficile far cambiare idea alle persone, e poi a me il fisico non aiutava, voglio dire, neanche il fisico era dalla mia parte, partivo svantaggiato in tutto, e così nonostante le mie prove di carattere,  ero il solo soldato semplice della compagnia, insieme al cane. No, non ho niente contro i cani, ma eravamo una compagnia di ragazzi mica di cani, in fondo. E non era neanche vero che obbedivo allegramente a tutti, era solo per conquistarmi la loro simpatia, ma questo non è che si capisse molto, alla fine il mio sorriso amaro sembrava agli altri l’approvazione ai loro comandi e così nessuno mi prendeva in considerazione come avrei voluto…

1.3

Boka

Egregio signore, le scrivo dall’Università di URBANA CHAMPAIGN, non lontano da Chicago, città dove insegno. Mi scuso se ha atteso del tempo prima che mi decidessi a scriverle, ma sa, io di pararle di quegli avvenimenti non ne avevo, e non ne ho,   nessuna voglia. Ormai vivo qui da tantissimi anni, probabilmente non tornerò mai più nella mia patria d’origine, i miei figli, la mia seconda moglie, non ne hanno alcuna intenzione. Ogni tanto ne parliamo, quando ci riuniamo, ma poi lasciamo cadere l’argomento. Ho una certa difficoltà anche perché per via di quel romanzo sono iniziati tutti i miei problemi. Ora le spiego con calma. La notorietà mi aveva  reso la vita impossibile. Era indubbio che fossi io il personaggio principale, il positivo, il vincente del romanzo. Di conseguenza si scatenò la caccia alla mia persona, ed io ne uscii sconfitto. Non è facile mantenere una condotta di vita uguale a quella che gli altri vorrebbero vedere, con la prospettiva di dover continuare per sempre per non deludere le aspettative. E così ho mollato, sono letteralmente scappato. In questa Università dove insegno mi occupo ogni tanto di traduzioni di tutte le lingue, escluso l’ungherese, i colleghi sono così gentili da non farmi trovare mai sulla mai strada un lavoro che abbia a che fare con la mia patria di origine. Come avrà capito dalle mie divagazioni, io non ho molta voglia d parlare dei ragazzi della via Paal. I motivi sono molti, come le ho già detto, il primo e più importante è che per via di quel romanzo io ho dovuto rifarmi una vita qui, in America. Non è stato facile iniziare tutto daccapo, i primi anni sono stati duri, io che sono sempre stato un solitario, ho sofferto la solitudine in modo atroce. Forse è per questo motivo che mi dà fastidio  ricordare la mia giovinezza, insomma,  era solo la mia adolescenza. Qualcuno in questi anni mi ha scritto che il professor Ratz diventò un sostenitore del nuovo regime. Non ci voleva poi molto.  Ora mi immagino che viva in una casa sulle colline di Buda, la collina delle rose, con una moglie molto più giovane che forse lo tradisce, ma tutto questo Alice non lo sa perché è morta prima. Alice era la sua prima moglie. Non rida, il professor Ratz, lui sì, vive ancora, e vivrà finché qualcuno non lo farà morire. Scusi, ma secondo lei a quale scopo sarebbero stati inventati i romanzi? Per far continuare a vivere per centinaia di anni i personaggi che li animano. Per ritornare sull’argomento del professore, ho saputo anche che alla morte di Alice, una signora per bene e rispettabilissima che lo aveva sopportato per tutta la vita, si è fatto infinocchiare da una professoressa giovane del suo liceo, una bionda che si diceva avesse una relazione con il vecchio preside, molti continuano a dire che ha continuato ad averla anche dopo il suo matrimonio con Ratz…ma questo non lo so per certo e quindi non lo ripeto, lo dico solo per farla contento, per consumare ancora un poco la fiamma della sua voglia di pettegolezzi, altrimenti non vedo perché lei dovrebbe avere tutta questa morbosità a conoscere cose ormai morte e sepolte. Addio.

di Francesco Di Lorenzo

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