Un ministro chiamato De Mauro

Antefatto. Tullio De Mauro, proposto da Giuliano Amato, diventa ministro il 25 aprile del 2000. Durerà in carica fino all’11 giugno del 2001. Massimo D’Alema si è appena dimesso da capo del governo, in seguito alla sconfitta del centrosinistra alle elezioni regionali del 16 aprile. Luigi Berlinguer si è giocato tutta la sua popolarità con il concorsone. Il suo partito non l’ha riconfermato.

De Mauro è professore universitario. È un insigne linguista. In campo accademico detiene un grande potere, che gli deriva da uno sterminato curriculum e da un’estrema serietà professionale. Ha all’attivo una serie impressionate di pubblicazioni. Le sue idee sulla scuola sono molto ben definite; come quelle sulla società italiana e sulla lingua che parliamo.

Sembra naturale a tutti che dalla poltrona di ministro possa dare un contributo importante alla scuola italiana. Il suo è un traguardo ampiamente meritato. Nella sua carriera si è sempre interessato della scuola viva, quella di tutti i giorni. Insomma, le persone che si intendono di scuola lo conoscono bene e hanno fiducia in lui. Una parte, però, non tutti.

(dal libro “Ministri della Pubblica Istruzione”, Uppress Edizioni – Bologna, 2012)

Tullio De Mauro – Ministro della Pubblica Istruzione:

dal 25 Aprile 2000  all’11 Giugno 2001 – governo: Amato II

La vita. Dunque, un famoso linguista al ministero della Pubblica istruzione. Tullio De Mauro sulla poltrona appena lasciata da Luigi Berlinguer. Nato nel 1932 a Torre Annunziata, in provincia di Napoli, De Mauro è considerato il più importante studioso della lingua italiana.

È docente di Filosofia del Linguaggio presso l’Università di Roma. Ha contribuito alla diffusione e all’affermazione in Italia delle teorie linguistiche legate allo strutturalismo. Ha curato, nel 1967, la traduzione e il commento del ‘Corso di linguistica generale’ di Ferdinand de Saussure.

Gran parte delle sue opere sono dedicate allo studio della lingua italiana dagli anni dell’unificazione ai giorni nostri (‘Storia linguistica dell’Italia unita’, 1963).

Ha diretto e curato importanti opere lessicografiche tra cui il Grande Dizionario Italiano dell’Uso del 1999.

La sua attività di studioso ha sempre avuto anche un risvolto ideologico e politico. È stato un collaboratore storico ed animatore della rivista “Riforma della scuola”. La rivista aveva una diffusione enorme, ed era considerata un punto di riferimento da quasi tutti gli insegnanti di matrice laica.

Tra le sue iniziative c’è anche la creazione del giornale “Due parole”, pubblicazione con testi semplificati per ragazzi con difficoltà linguistiche o analfabeti di ritorno. De Mauro ha fatto parte della Commissione per la riforma dei programmi, nonché del gruppo di saggi nominati dal precedente ministro Berlinguer.

Ma il neoministro è anche un uomo colpito negli affetti dalla mafia. Suo fratello, il giornalista Mauro De Mauro, venne rapito mentre tornava a casa, a Catania, una sera di settembre del 1970. Cronista del quotidiano l’Ora di Palermo, stava lavorando, per il regista Francesco Rosi, a una ricostruzione storica della morte di Enrico Mattei. Il suo corpo non è mai stato trovato. Solo 25 anni più tardi i ‘pentiti’ di Cosa nostra hanno raccontato quello che in Sicilia sapevano tutti. E cioè che De Mauro era stato fatto sparire dalla mafia.

APRILE – DICEMBRE 2000

Esordi. Il nuovo ministro oltre che essere uno dei più illustri linguisti italiani, è anche popolare quel tanto che basta. Le sue lezioni all’Università sono tra le più seguite. Sa attirare l’attenzione. È arguto e mette nei suoi discorsi quel pizzico di polemica che impedisce all’uditorio di distrarsi. È proverbiale la sua battaglia contro il burocratese e per il parlare e lo scrivere chiaro.

L’Enel, quando dovette semplificare e rendere leggibile la bolletta che arriva nelle case di tutti gli italiani, si rivolse ad una commissione la lui presieduta. E fu una bella esperienza, ricorda.

La sua capacità affabulatoria lo porta a volte ad esagerare. Ma questa è anche una sua caratteristica. E non se ne può fargli un torto. Spesso è in televisione e sulle questioni della scuola i giornali lo intervistano abbondantemente. Collabora con i maggiori quotidiani nazionali. È stato, negli anni settanta, assessore all’istruzione per la regione Lazio. In quell’occasione scrisse un libretto poi distribuito dal suo partito di riferimento, l’allora Pci. La breve pubblicazione condensava in dieci punti le cose da fare per l’istruzione. La prima, il punto di partenza, era l’assunto che ‘senza alfabeto, niente democrazia’. Che tradotto vuol dire, più parole nuove, più linguaggio, più scuola, più accesso alle informazioni per tutti, perché senza queste cose non ci può essere democrazia. Le altre erano l’estensione dell’obbligo scolastico fino ai 18 anni; la formazione degli insegnanti con relativo aumento dello stipendio e il recupero scolastico degli adulti. Cose che, guarda caso, il suo predecessore ha già iniziato a fare.

In ultimo, non si può non ricordare che è stato uno degli ispiratori, a metà degli anni settanta, delle ‘dieci tesi per una linguistica democratica’. Le tesi, elaborate dalla società italiana di linguistica, furono diffuse e portate nelle scuole medie durante quegli anni e contribuirono non poco a svecchiare l’insegnamento delle lingua italiana.

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Passaggio di consegne. Le prime parole di elogio per De Mauro sono dell’ex ministro Luigi Berlinguer. Il ‘Barone rosso’ dichiara che è contento per la scelta, perché la riforma della scuola l’hanno fatta insieme. La sua conclusione è che: “La riforma è ormai un patrimonio irreversibile…Tullio è un amico, un gran signore, un uomo di cultura, continuerà il mio lavoro”.
Nella stessa intervista, a due giorni dalla sua uscita di scena come ministro, dirà una cosa profetica. Ammonisce gli insegnanti a considerare che se la sinistra sulla scuola ha potuto anche sbagliare qualche passaggio, le idee della destra sono a dir poco mostruose: “Bossi ha già rivendicato la scuola padana. Sarebbe raccapricciante se un professore nato a Mergellina non potesse insegnare a Pordenone”. Che idee, a volte, passano per la testa dell’ex ministro…

Nell’ambiente si sussurra che sia stato lui stesso a suggerire il nome di del nuovo ministro al partito, avendo perso le speranze di una riconferma. Addirittura si vocifera che abbia dovuto convincerlo ad accettare, perché l’amico De Mauro era riluttante. Ma queste sono solo voci. Di certo, se non ha assecondato l’avvicendamento con gioia (è un po’ troppo, non porto mica il cilicio, avrebbe detto) sicuramente non l’ha ostacolato. Berlinguer però esce da gran signore, ringrazia il suo partito per la fiducia che comunque gli era stata accordata, concludendo che la poltrona non gli fa nessun effetto. Tiene più al suo fegato e alle sue coronarie.

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Si parte… male. Intanto, il ministro De Mauro parte malissimo. Sa troppe cose di scuola. Ha purtroppo delle idee su come ovviare o almeno tentare di invertire una tendenza storica all’inefficienza e alla negligenza. Il guaio è che ora ha il potere necessario per fare questo tentativo. Appena insediato, sull’onda dell’entusiasmo, dirà:

I cambiamenti di cui ha bisogno la scuola italiana non possono essere considerati un problema del ministro della Pubblica istruzione, ma debbono diventare il chiodo fisso del governo e del Parlamento”.

Non è il solito modo di scaricarsi dalle responsabilità, ma il tentativo di coinvolgere tutti quelli che dicono a parole e non passano ai fatti.

Le sue prime due o tre iniziative, in sequenza sono (come dire) al fulmicotone.

Nella sede dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, la Treccani, fa l’elogio di Giovanni Gentile. Che ne fu il direttore. Oltre che filosofo, ministro della pubblica istruzione e a cui si deve la storica riforma scolastica del 1923. De Mauro dice che il progetto scolastico di Gentile è ancora oggi straordinariamente valido. È evidente che non ci crede. La scuola di matrice gentiliana è superata dai fatti. Ma trovandosi in casa del morto ne fa l’elogio funebre. Forte anche del fatto che la riforma appena approvata, e che lui dovrà far applicare, ormai è cosa fatta e supererà una volta per sempre quella di Gentile. Fa il temerario, fa finta di non sapere che parlare bene di Gentile suscita sempre polemiche: il filosofo aderì alla repubblica sociale e fu ucciso per questo dai partigiani fiorentini. Ma appena poche ore dopo, De Mauro fa l’elogio di Marx e, forse per compensare, dichiara:

Occorrerebbe rileggere l’appendice del Manifesto di Marx ed Engels perché è un discreto pro-memoria dei diritti, il punto di partenza di tutti noi”.

Lucio Colletti (ex filosofo marxista passato alla destra) furioso, insieme a tutto il Polo lo attacca:

Fa solo demagogia, riproporre Marx nella scuola è fuori dalla storia”.

Il giorno dopo, in un’intervista, dice che ‘qualsiasi ragazza che oggi voglia andare a scuola con il chador lo può fare’. Lo ribadisce a Torino, dove c’erano stati migliaia di musulmani che avevano chiesto per le loro donne il diritto a mantenere il chador nelle foto dei documenti. E già che c’è, lancia anche l’idea di far fare corsi ai docenti nell’orario pomeridiano, per rimpinguare il misero stipendio da insegnante. Ad esempio, corsi di arabo o di altre lingue, ora che da settembre l’autonomia delle istituzioni scolastiche sarà a regime.

Apriti cielo! Per il chador è proprio la sinistra che inizia con le polemiche. Per l’antropologa Ida Magli il chador è segno della sottomissione della donna all’uomo e non può essere tollerato nella nostra cultura. Per i presidi, invece, il chador in classe è l’ultimo dei problemi: loro sono impegnati a spegnere le proteste per l’insegnamento della storia che tratta l’islam in modo ostile. Oppure, a come organizzare le mense con tutti i divieti e i cibi proibiti dei musulmani. Ma il bello è che il chador non interessa neanche le comunità Islamiche in Italia:

Noi musulmani in Italia non lo consideriamo una priorità. Apprezziamo le parole del ministro, ma mettiamo prima altre esigenze come quelle delle relazioni culturali tra comunità differenti”.

E con questo, il ministro gran signore, intellettuale fine ed educato, è servito.

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Il ministro, l’informazione e la mobilità sociale. Il professor De Mauro è convinto che la cattiva informazione sulla scuola faccia solo danni. E lo ha scritto quando ancora non c’era all’orizzonte nessuna possibilità che diventasse ministro. Questo modo distorto di informare, per De Mauro, condiziona i ministri. I quali, credono di poter affrontare le questioni formative, ribattezzando alcune categorie di insegnanti o sopprimendo gli esami di riparazione. Così le pagine dei giornali si riempiono di queste amenità/stupidità, e i problemi secolari della scuola italiana restano allo stesso punto di prima.

Per il ministro, invece, il sistema formativo italiano è il terreno su cui si perpetua e si accentua la nostra disuguaglianza sociale. Alcuni decenni addietro, l’accesso all’Università o anche al diploma di scuola secondaria superiore, erano stati elementi importanti per determinare la mobilità sociale. Ora, invece, un genitore si domanda: che cosa mando a fare mio figlio a scuola se non ha neanche la possibilità di guadagnare più di me?

Il ministro dice che bisogna risalire la china della disattenzione verso questi aspetti centrali del nostro sistema scolastico. Perché la scuola è un fattore di democrazia. Per lui, il problema è profondamente culturale. (Così verrà preso dallo sconforto, dice, quando una mattina, aprendo la porta di una stanza del suo ministero, sentirà un altissimo funzionario dire: “Ma dove sta scritto che tutti devono andare a scuola?”).

Per De Mauro, una scuola poco democratica è destinata a far fallire tutto il paese. Questo, perché una scuola che non guarda avanti, che è concentrata su se stessa, che non apre prospettive, non ha alcun futuro. E qui, conclude, non è questione di essere di destra o di sinistra: è questione di essere italiani. Volere una scuola democratica è volere il bene degli italiani.

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Scuola, alfabeto e analfabeti. Il nuovo ministro ha idee ben precise sul nostro sistema scolastico. Egli sa, per averlo scritto in vari libri e discusso in più occasioni, che ancora nel 1995, la metà degli italiani non ha la licenza media. Nonostante la Costituzione Italiana prescriva otto anni di scuola obbligatoria per ogni cittadino. E se è vero che appena venti anni prima erano addirittura tre quarti quelli che non l’avevano, questo non dovrebbe consolarci più di tanto.

Anche perché tra i primi sette paesi più industrializzati (dei quali facciamo parte), noi siamo quelli che hanno il più basso indice di scolarità. Siamo quelli che portiamo al diploma 40 giovani su 100 (mentre la Spagna ne diploma 64, Usa Gran Bretagna e Francia 75, la Svezia 80, il Giappone 91). Siamo quelli che portano alla laurea 90.000 giovani all’anno, mentre i paesi che hanno più o meno la nostra stessa quantità di popolazione, Francia, Gran Bretagna e Germania ne portano alla laurea 150.000. Sempre in un anno.

Questo il ministro De Mauro lo sa, e ne fa una sua personale bandiera. Un suo manifesto. Lo sa, perché lo denuncia, che ci sono, invece, alcuni gruppi politici che se ne fregano allegramente della scuola. Anzi, con il loro operato devono coprire, o non devono scoprire, tutto quello che non è stato fatto in tanti anni di mancata politica scolastica.

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Alla fine del 2000, quindi, il ministro denunciava che quasi otto milioni di italiani non sapevano né leggere né scrivere. Cioè, il 14% della popolazione sopra i sei anni era analfabeta. Ed evidenziava anche il fatto che di scuola si parlasse solo in prossimità degli esami di stato con grandi paginoni sui quotidiani. O quando si verificava qualche episodio eclatante: la maestra che chiudeva con l’adesivo la bocca del bambino o la professoressa che di sera si scopriva pornostar.

Ma De Mauro sa anche che in Italia si legge poco. Il 56% delle famiglie italiane ha in casa meno di 25 libri. E il 23%, nessun libro. Tra questo 23% di italiani che non ha nessun libro in casa, c’è un’alta percentuale di diplomati e di laureati. E gli stessi, intervistati, dichiarano senza nessun complesso, che non leggono libri, di nessun genere.

Un laureato che non ha nessun libro in casa, ma potrebbe sempre prenderli in biblioteca, e soprattutto che dichiara di non leggerne neanche uno all’anno, manda certamente un segnale di grande sincerità. Ma genera quantomeno qualche sospetto.

Sarà un caso. Una coincidenza. Proprio in quel periodo arriva ai giornali una ricerca sulle competenze alfabetiche degli adulti italiani. In pratica due italiani su tre, in età compresa tra i 16 e i 65 anni, hanno difficoltà quando leggono e soprattutto quando scrivono. Il 34,6% è ai limiti dell’analfabetismo. Il 30,9% ha un patrimonio alfabetico limitato e rischia, in mancanza di stimoli, di scivolare nell’analfabetismo. De Mauro che già conosce bene questi argomenti e queste cifre, dice che il quadro è allarmante. In età scolare in qualche modo si riesce ad attenuare il rischio analfabetismo. Ma restano i due milioni di analfabeti totali che hanno più di 45 anni. Bisogna pensare ad una scuola che ritorni sui propri passi. Ad un’istruzione che duri tutta la vita, anche perché l’8% dei laureati non è in grado di utilizzare la scrittura in modo completo.

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La commissione dei 228 e… il manifesto dei 500. Una delle caratteristiche del ministro De Mauro è che si dilunga troppo nelle spiegazioni. Per qualcuno, semplicemente, parla troppo. Ma è un linguista, sa mettere insieme le parole e tutte le occasioni sono buone per dimostrarlo. Il suo è un atteggiamento da insegnante che vuole spiegare bene ciò che dice. E questo suo atteggiamento arriva naturalmente anche al ministero.

Il 27 giugno insedia la sua prima Commissione. Dovrà aiutarlo a presentare il programma per l’attuazione progressiva del riordino dei cicli scolastici. Il lavoro di rifinitura della riforma Berlinguer, per intenderci. La Commissione dovrà individuare gli obiettivi formativi scolastici da conseguire al termine del primo ciclo di sette anni. E quelli al termine del ciclo secondario di cinque anni. È formata da 228 componenti del più vario orientamento ideologico e culturale e delle diverse specializzazioni e professionalità.

Il giorno dell’insediamento e della prima riunione plenaria della commissione, il ministro fa il discorso introduttivo. Parte da lontano. Ricorda che i dati del censimento del 1951, reso noto nel 55, fecero scoprire alla nazione che sei italiani su dieci non possedevano nessun titolo di studio. Ricorda che questa posizione di estrema povertà culturale da allora è andata via via migliorando. Ma che questa lunga marcia verso la scolarizzazione di massa è stata sempre osteggiata.

Dice:

L’opposizione all’idea che tutti dovessero frequentare la scuola media era violenta, e serpeggiava sia nel maggiore partito politico di governo, la Democrazia Cristiana, sia nel massimo partito d’opposizione. “Todos caballeros” fu il titolo di un articolo di ripulsa all’idea della media unificata scritto da uno dei più illustri intellettuali comunisti del tempo. Questa tesi fu tuttavia sconfitta e si andò all’istituzione della media unificata”.

Rilegge alla commissione per intero i primi undici articoli della Costituzione italiana. Fa un excursus delle posizioni e delle componenti culturali che hanno operato nell’ambito scolastico in questi anni, confrontando cifre e dati. Tenendo in tutto e per tutto una lezione a 228 alunni. Tra cui molti eminenti studiosi e cattedratici quanto lui e forse di più. Il ministro alla fine chiede che gli obiettivi e il piano di fattibilità siano pronti per metà settembre. Si prospetta per i 228 un’estate di lavoro.

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Richieste. Passano pochi giorni e sul tavolo del presidente del consiglio, indirizzata anche al ministro della pubblica istruzione, arriva la richiesta di ritirare la riforma dei cicli. Anticipata da migliaia di lettere aperte, scritte da insegnanti e genitori di tutta Italia.

A porre esplicitamente la richiesta è il “Comitato nazionale del manifesto dei 500”. Dicono, in breve, che l’accorpamento di scuola elementare e media farà perdere agli alunni intere parti di programma. E porterà alla soppressione di alcune materie. E che la riorganizzazione tra maestri e professori farà perdere valore e identità sia agli uni che agli altri. Dicono di non essere d’accordo che a decidere obiettivi e programmi siano 228 esperti. Che, intanto, lo faranno senza ascoltare chi la scuola la vive davvero, cioè migliaia di insegnanti e genitori.

Sergio D’Antoni, segretario generale della Cisl, è d’accordo con il Comitato dei 500. Definisce la riforma dei cicli ‘una vera disgrazia’. “Bisogna impegnarsi per cambiarla”, dice, “perché va nella direzione opposta rispetto a quella che un paese moderno deve perseguire. Diminuisce la qualità della formazione anziché aumentarla”.

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Amato e il ‘plof’ dei pof. De Mauro, si è capito, è un parlatore nato. A volte si dilunga troppo e viene preso in giro dal presidente del consiglio.

Come sempre, alla fine del consiglio dei ministri, c’è la conferenza stampa. Tutti i responsabili dei dicasteri rispondono alle domande dei giornalisti. L’unico che non finisce mai di parlare è lui. Amato scherzando gli dice di stringere, gli fa dei segni con la mano. Ma lui niente, imperterrito continua a parlare di POF, i piani dell’offerta formativa. Vuole spiegare ai giornalisti che ce ne sono 11mila, uno in ogni scuola italiana. E Amato di rimando ‘speriamo che non facciano PLOF, tutti questi POF’. De Mauro da vero professore non si fa distrarre. Va avanti nella spiegazione, ha una missione: si è messo in testa di convincere i giornalisti che il POF è una roba importante.

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Scioperi e missioni quasi impossibili. Il primo mese da ministro per De Mauro, e l’ultimo di scuola per l’anno scolastico 1999/2000, è contrassegnato da scioperi e proteste. Nessuno gli dà tregua. I Cobas vogliono saggiare se il movimento che sembrava nato il 17 febbraio con la protesta contro il concorsone di Berlinguer è ancora in piedi. E indicono uno sciopero per rivendicare l’abolizione di ogni forma di differenziazione degli stipendi tra gli insegnanti. Chiedono, poi, maggiori investimenti per la scuola pubblica. Stipendi più alti, mantenimento della scuola elementare e media e un aggiornamento serio mediante un anno sabbatico. Oggettivamente un miscuglio non distinguibile di tutto e di niente. Con l’intento di cogliere nel mucchio.

Lo sciopero non va benissimo: corteo di quattro-cinquemila persone a Roma, e dappertutto cifre basse di adesione. Ma non si demorde. I Cobas insieme a Gilda, Unicobas e Cisal confermano lo sciopero degli scrutini dal 12 al 16 giugno. Scendono in campo anche i precari. È previsto un corteo a Milano e il ministro, per evitare contestazioni, cancella la sua partecipazione in città ad un convegno. Non è finita. Ci sono in agitazione tutti gli impiegati degli ex Provveditorati, aderenti questa volta a tutti i sindacati. È successo questo: i provveditorati sono in smantellamento per effetto della legge di riordino del ministero. Dovrebbero essere sostituiti dagli uffici scolastici provinciali ancora in allestimento. Intanto ci sono da smaltire le domande per la pubblicazione delle graduatorie permanenti degli insegnanti. E ognuna di esse contiene tre copie, una per le immissioni in ruolo, una per le nomine annuali e una per le supplenze alle varie scuole. Il tutto deve essere fatto dopo la conclusione degli esami di maturità e prima del 31 agosto. In modo da esser pronti per l’inizio dell’anno scolastico. Una missione quasi impossibile.

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Le ferie? Si saltano! A settembre deve partire a regime l’autonomia delle istituzioni scolastiche. Ognuna di esse avrà un dirigente responsabile e piena autonomia didattica e organizzativa. Prima, però, le regioni presenteranno un piano di dimensionamento. Cioè un elenco delle scuole con un numero di alunni che va da un minimo di 500 ad un massimo di 900. Questo significa che si devono accorpare alcune scuole, altre si devono dividere. Intanto molte regioni non hanno ancora presentato il piano. Con il rischio che a settembre non si riesca a far decollare effettivamente l’autonomia.

Partono le sollecitazioni. In alcune regioni vengono nominati commissari per questo specifico compito. In Campania il ministro nomina Antonio Bassolino commissario ad acta. Intanto Formigoni, governatore della Lombardia, chiede l’applicazione completa del federalismo scolastico. Vuole essere lui a organizzare senza nessun vincolo il sistema scolastico regionale. Vorrebbe far competere scuola statali e scuole private, assegnando i buoni scuola secondo criteri decisi autonomamente. Intanto, all’inizio di luglio viene varato dal governo un decreto attuativo che porta l’obbligo formativo fino ai diciotto anni. Prima, una volta finito l’obbligo scolastico a 15 anni, la legge non prevedeva più niente. Adesso, invece, finito l’obbligo, il giovane avrà di fronte più strade: proseguire gli studi, frequentare corsi di formazione regionale, avviarsi all’apprendistato in azienda, o ancora, seguire percorsi integrati di istruzione e formazione. Il ministro è soddisfatto. Aver licenziato un provvedimento che attua un collegamento così intenso tra mondo della scuola e mondo del lavoro, è fonte di grande soddisfazione.

Preso da tutte le cose che ci sono da fare, De Mauro fa sapere che rinuncerà alle ferie. Tale decisione costringerà molti funzionari e impiegati del ministero a fare altrettanto.

Il ministro mentre insedia l’ennesimo comitato scientifico, questa volta per l’attuazione del piano nazionale di alfabetizzazione degli adulti, fa una precisazione sull’argomento ferie:

Purtroppo è in programma un agosto romano di lavoro, ma qui tutti mi paiono tranquilli e sereni. Certo, i mariti delle collaboratrici e le mogli dei collaboratori sono poco lieti di questa prospettiva, però in qualche modo anche a loro spetterà il turno. Per me sarà più difficile”.

Tranquilli e sereni li vede solo il ministro. Tra di loro circola invece una battuta. Che dopo quattro anni di superlavoro con Berlinguer, come premio, ora, mancava solo di saltare le ferie.

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Il mistero del ministero. Quindi, è certo. Per far partire a settembre l’autonomia scolastica, al ministero si saltano le ferie. Ma non è detto che comunque alla fine sia tutto pronto. Già il ministro, nel suo primo intervento alla camera, mise le mani avanti. Espresse la preoccupazione che per la concomitanza di più adempimenti potesse essere a rischio l’inizio del nuovo anno scolastico. Ma del resto, come dicono tutti, l’autonomia è necessaria. Tra dirigenti, amministrativi, insegnanti, tecnici e bidelli si arriva a quasi un milione di persone. Neanche con i poteri del presidente degli Stati Uniti si riuscirebbe a governarli.

Francesco De Sanctis, già ricordato primo ministro delle pubblica istruzione del Regno d’Italia, nel 1861 aveva detto:

L’insegnamento, per troppo zelo dei medici, si trova ammalato… il sistema è fondato su una ingerenza minuta nelle più piccole cose… Un sistema distruttivo di ogni andamento regolare della cosa pubblica. Intollerabile. Deve cessare e cesserà”.

Beh, era ottimista. In fondo, sono passati solo centoquarant’anni dalle sue parole. Ma resta il fatto che gli ultimi rantoli, si spera, di un sistema fin troppo centralizzato sono da record. In due anni il dicastero della pubblica istruzione ha prodotto più circolari e ordinanze che negli ultimi dieci messi insieme. Mille in un solo anno. Quella che detta le disposizioni per il trasferimento e le assegnazioni provvisorie era lunga 110 pagine. Da leggere e poi far applicare. Era così complessa, che ci sono volute 5 circolari aggiuntive per chiarire in che modo si doveva presentare la domanda.

Intanto, le cose da fare non sono poche. Bisogna completare le abilitazioni e le idoneità degli insegnanti precari; definire le graduatorie dei concorsi ordinari; chiudere con il passaggio alle dipendenze dello Stato di amministrativi, tecnici e ausiliari che prima erano pagati dai Comuni. E ancora, emanare provvedimenti per la gestione economico-finanziaria delle singole scuole. E sbloccare il riordino degli organi collegiali fermo in parlamento. Insomma, il lavoro non manca.

Il ministro ostenta serenità. A chi gli ricorda che il primo settembre è venerdì e che l’anno 2000 è un anno bisestile, De Mauro risponde di non essere superstizioso. Lui è convinto che da settembre non sarà più a capo di una struttura elefantiaca. Che finalmente il ministro della pubblica istruzione dovrà solo capire le esigenze delle scuola autonome, portare le loro istanze al governo e al parlamento. E, magari, reperire più soldi da distribuire in maniera equilibrata. Non si capisce se scherza, è ottimista o ci crede veramente.

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Grane da imbrogli. Come se non ci fossero già troppe cose da fare, scoppia subito un’altra grana. Dopo i primi tre arresti, si aprono altre inchieste sugli imbrogli ai concorsi per l’insegnamento alle scuole elementari. Il ministro è lì, pronto ad arginare le dicerie sulla corruzione. Che, si dice, regnerebbe incontrastata nei concorsi scolastici e al ministero. Si affretta a dire che non esiste una tangentopoli alla pubblica istruzione. Smentisce le voci che si fanno sempre più insistenti. Al telegiornale, porta il ragionamento che alcuni casi isolati non possono determinare un giudizio definitivo e inappellabile. Si parla solo di uno o più episodi di corruzione che ancora devono essere accertati. Nello stesso tempo però non smentisce che il problema potrebbe esistere. Forse già esiste, e si stanno organizzando, lì al ministero, per escogitare nuove e più trasparenti forme di reclutamento. Intanto da ora in poi le abilitazioni all’insegnamento le daranno solo le scuole di specializzazione. Le SISS che sono partite da un anno. E poi, rassicura i genitori, si sta pensando di nominare per i prossimi concorsi non commissari che si autopropongono, ma esperti di valutazione. Sarebbe una rivoluzione. Che, proprio per questo, non si farà mai.

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L’educazione degli adulti e il Cede (II parte). È quasi la fine di luglio. Siamo nell’estate, l’unica da ministro, che De Mauro dedicherà al lavoro saltando le ferie. In forma solenne procede all’insediamento del Comitato scientifico per l’attuazione del Piano di alfabetizzazione funzionale della popolazione adulta.

È stato sollecitato da un’indagine che aveva rilevato il rischio alfabetico per un terzo della popolazione italiana tra i 16 e i 65 anni. Dà subito seguito ad un accordo stipulato dal suo predecessore. E quindi, riorganizza e potenzia l’educazione degli adulti.

Si scelgono le aree in cui gli adulti saranno chiamati a formarsi.

Saranno quattro: Area dei linguaggi; Area Storico sociale e giuridico – economica; Area scientifica; Area tecnologica ed informatica. Saranno previsti interventi mirati a gruppi sociali specifici come lavoratori socialmente utili, casalinghe, immigrati, disabili, detenuti.

Sembra di vivere in un altro mondo.

Tutta l’organizzazione è affidata all’azione di Centri territoriali permanenti per l’educazione degli adulti (CTP-Eda). I Centri già svolgono attività di accoglienza, ascolto, orientamento e di alfabetizzazione primaria. Nonché istruzione finalizzata all’ eventuale accesso ai livelli superiori di istruzione e di formazione professionale. L’ingresso è gratuito e vi possono accedere persone di qualsiasi età. La precedenza, visto che ce n’è bisogno, è accordata a coloro che richiedono il conseguimento di un titolo di studio (licenza elementare o media).

I Centri territoriali, che sostituiscono gli ex corsi delle 150 ore per lavoratori, sono partiti nel 1998, voluti dal ministro Berlinguer. Già nel primo anno erano stati attivati 700 corsi di alfabetizzazione primaria su 2/3 dei Centri. Poi, ancora, circa 1700 corsi delle 150 ore nel 95% dei Centri con una utenza media di 53 adulti. Altri 97mila adulti hanno potuto fruire presso i centri di corsi di brevi o carattere modulare (alfabetizzazione informatica e inglese).

Non appena hanno cominciato a far bene, a partire dal 2003, i Centri sono stati subito depotenziati, sempre di più svuotati, tagliati, mortificati. Oggi sono solo scatole vuote. L’alfabetizzazione funzionale è affidata ai serali delle scuole secondarie superiori. Un modo gentile per dire ‘siete fuori’. Nel documento sulla riorganizzazione dei Centri Territoriali per l’istruzione gli adulti dell’aprile 2009, non c’è più traccia dei Corsi a favore dei cittadini stranieri per l’integrazione linguistica e sociale.

Se qualcuno si azzarda a far discorsi antichi sull’istruzione di base per tutti, viene semplicemente deriso. Le idee di don Lorenzo Milani vengono presentate da grandi giornalisti, in libri a grande diffusione, come scemenze buone per far perdere ancora altro tempo.

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È ormai agosto e il ministro De Mauro fa partire l’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione.
In poche parole, è la riforma dell’ex CEDE, Centro Europeo dell’educazione. Anche questa, bisogna ricordare, è una iniziativa che era partita con Berlinguer. Il nuovo Istituto dovrà documentare e rilevare i risultati che le varie scuole otterranno. Dovrà, inoltre, monitorare le condizioni, vale a dire l’efficacia delle innovazioni dovute alle riforme in atto. Poi, essere in stretto contatto con i sistemi scolastici di altri paesi europei e non solo. Ed infine analizzare i fenomeni come la dispersione scolastica, che tanto incidono negativamente sulla nostra scuola.

Passato appena qualche anno, si chiamerà INVALSI, che vagamente ricorda già qualche menomazione. Avrà un organico di perfetti sconosciuti nominati direttamente dal ministro. I quali lavoreranno nella sede bellissima di un castello cinquecentesco di Frascati. Risultati nulli, polemiche a non finire. Ma questo lo vedremo dopo.

SETTEMBRE 2000

La scuola degli ultimi. Il ministro, fedele ad una tradizione che lo distingue, dedica attenzione a tutte le scuole d’Italia. Ma ne dedica un poco di più a quelle che ospitano gli ultimi, gli esclusi, le scuole dei quartieri a rischio e degli emarginati. La tradizione a cui fa riferimento De Mauro è quella che proviene da don Lorenzo Milani. Il quale diceva che la scuola o la si fa per gli ultimi o non è scuola. E che trova da sempre gli oppositori che bollano quelle idee come una inutile perdita di tempo. Qualcuno di questi ha parlato di buonismo fuori tempo massimo.

Naturalmente non si tratta di essere di destra o di sinistra, lo ha ricordato pure il ministro. Chi si oppone alla scuola di tutti, a far frequentare i ragazzi che per tradizione familiare non dovrebbero andarci, è una schiera trasversale di privilegiati. Sono anime belle, come si diceva una volta, che pensano seriamente che lo studio non sia fatto per tutti. Un po’ strano, però, diceva don Lorenzo Milani, esibendo i dati. Gli esclusi sono sempre gli stessi. Provengono dallo stesso strato sociale. Qualcosa non quadra. Quindi De Mauro, il quale vorrebbe una scuola che dia la possibilità di provare anche a quelli che sono stati già bollati come non adatti, dà subito un segnale. In Sicilia, visita per l’apertura dell’anno scolastico la scuola elementare Giovanni Falcone. E inaugura l’anno con i 530 ragazzi della media Garibaldi. Tutte e due le scuole sono ubicate nel quartiere ZEN di Palermo. Non c’è bisogno di dire che lo Zen offre uno spaccato della scuola palermitana che si colloca tra il rischio e l’emergenza. Prima i ragazzi e poi le istituzioni, per De Mauro queste sono le priorità. E per non smentirsi, negli stessi giorni andrà a Napoli ad incontrare per conoscere ‘i ragazzi coinvolti nel progetto Chance. Quello che punta al recupero degli adolescenti espulsi dal mondo della scuola’.

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[Intermezzo personale]. Passa appena un mese, è ottobre. Il ministro è invitato ad intervenire in videoconferenza, durante un convegno organizzato dall’associazione ‘Libera’ di don Luigi Ciotti a Torino. Parlerà per la prima volta in pubblico della scomparsa di suo fratello. Il convegno tratta di ‘democrazia, legalità e scuola’. Il ministro dice semplicemente che il dolore per la perdita del fratello è sempre presente, poiché il corpo non l’hanno mai trovato. È come se l’evento fosse avvenuto un momento prima. Dice che non essendoci una tomba, la partita non si è mai chiusa. Ricorda anche che aveva ragione Ugo Foscolo, quando nella sua poesia ricorda che un sepolcro aiuta a chiudere una storia e ad iniziare un rito in fin dei conti rassicurante.

Mauro De Mauro era giornalista del quotidiano l’Ora di Palermo. Stava scrivendo per il regista Francesco Rosi, che ne avrebbe fatto un film, la ricostruzione degli ultimi giorni in Sicilia di Enrico Mattei, presidente dell’ENI. Il giornalista fu fatto uccidere dalla mafia, come accertato dalle parole dei pentiti Mutolo e Buscetta. Ma non si è mai arrivati al mandante ed il processo è stato archiviato. De Mauro dice di essere contento di somigliare al fratello in modo preciso. E di essere orgoglioso di portare la sua stessa faccia. Questa sensazione, spiega, l’aveva provata qualche giorno prima all’inaugurazione di un Istituto di Agraria. Un Istituto sorto in una ex villa sequestrata a Totò Riina. E lui, aveva pensato nel momento dell’inaugurazione, che in un posto come quello era partito l’ordine di uccidere suo fratello. Ma aveva anche pensato che lo Stato vince sempre e che la legalità prima o poi si afferma. In quel luogo, una volta così potentemente squallido, ora ci era entrato da ministro il fratello di un nemico della mafia. E adesso ci vanno a scuola ragazzi che diventeranno uomini liberi. Una bella soddisfazione, dice.

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Agosto, appuntamento fisso. È agosto. Al ministero si lavora. Al meeting di Comunione e Liberazione per quest’anno le polemiche non sono legate alla legge sulla parità. Ormai è considerata in qualche modo acquisita. La polemica devia su altre cose. Intanto Berlusconi, invitato e osannato, nel suo discorso parla di scuola e si esprime contro la riforma. È solo un anticipo di quello che il Polo sosterrà tra brevissimo tempo. Invece, è sulla mostra allestita al Meeting sul Risorgimento italiano, che si scatena la polemica.

Nella presentazione della mostra qualcuno ha affermato che ‘si sarebbe potuto optare per la coesistenza di un Regno del Nord con uno del Sud’. E che ‘è stato un grave errore procedere ad un’organizzazione di stampo centralistico-­giacobino, soprattutto attraverso la persecuzione della Chiesa Cat­tolica’. Una tale interpretazione suscita parecchie perplessità. Addirittura un intellet­tuale di destra come Marcello Veneziani, noto per certe sue posizio­ni talvolta ‘eretiche’, ha invitato gli amici ciellini a non esagerare con l’Antirisorgimento.

Sollecitati da ciò, i Neoborbonici di Napoli annunciano che sottoporranno al Ministro della Pubblica Istruzione una petizione popolare. Vogliono una riscrittura dei libri di storia scolastici. Le firme saranno raccolte durante la contro-celebrazione dei 140 anni dall’entrata in Napoli del ‘sedicente eroe dei due mondi’. Secondo i neoborbonici, i ragazzi dovranno sapere che Garibaldi non fu affatto un liberatore. E che ‘l’unificazione italiana fu per il sud solo una conquista piemontese con massacri, saccheggi e una colonizzazione economica e culturale che dura ancora oggi’. I neoborbonici affermano che bisogna ‘ricostruire quegli avvenimenti senza retorica. Alla luce di nuove fonti archivistiche e bibliografiche’.

Il ministro è avvertito.

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Scioperi. Il ministro è da sempre sostenitore accanito di uno stipendio più alto per gli insegnanti. E così, all’inizio delle trattative per il nuovo contratto, annuncia aumenti per tutti e progressione di carriera. Cofferati preventivamente lo blocca. Se iniziamo con gli insegnanti, dice, inneschiamo un processo a catena. E chi ferma, dice, le rivendicazioni di tutta la pubblica amministrazione?

Il ministro e Cofferati avranno un incontro, si chiariranno, ma gli altri dirigenti sindacali si sentiranno offesi per essere stati esclusi.

La situazione non è facile da gestire. Sembra che l’unica certezza sia che tutti i sindacati sono sul piede di guerra. È vero che minacciano uno sciopero generale congiunto, ma ognuno di loro esprime delle rivendicazioni diverse. Sono tutti d’accordo sugli aumenti e sulla difesa della professionalità (che detto così non si sa che cosa significhi). Ma alcuni non vogliono differenziazioni di carriera, anzi chiedono l’abolizione della norma che l’ha innescata. Altri, invece, sono contro la riforma dei cicli, e vogliono che sia il ministro stesso a ritirarla.

Intanto, succede questo. Quando si sa, conti alla mano, a quanto ammonterebbe il sospirato aumento di stipendio, lo sciopero viene proclamato all’unanimità. L’aumento, con i fondi reperiti, si aggirerebbe sulle trentamila lire nette mensili. Appresa la notizia che anche i sindacati confederali sciopereranno, il ministro in un’intervista dirà che tale atto è contro l’etica sindacale. Ma come, si chiede (e chiede), io mi sto dannando l’anima per trovare qualche soldo, elemosinando di qua e di là, e voi mi abbandonate?

Allo sciopero del 7 novembre ci sono tutti. Le cifre dell’adesione, come sempre, sono discordanti. Il ministero dice che ha scioperato il 38,2% dei docenti. I sindacati uniti il 60%. I Cub scuola annunciano che ‘nove scuole su dieci sono rimaste chiuse’.Il ministro taglia la testa al toro dicendo: di questo sciopero bisogna tener conto. Per i sindacati o si riaprono su nuove basi le trattative per il contratto o si sciopererà di nuovo il 18 dicembre.

Ma vale la pena fermarsi per un momento alla giornata del 7 novembre. Nella città di Roma. Per strada, c’è il corteo principale con gli insegnanti che simpatizzano con l’anima antagonista della scuola. Ci sono i Cobas, che sono contro la riforma, contro i buono-scuola e contro la politica scolastica del governo. Poi, c’è di tutto. Ogni piccolo spazio o piazzetta è presieduto da qualcuno che rivendica qualcosa. Quelli della Gilda, al centro città, si sono armati di secchi e spazzolini e si improvvisano lavavetri. Chiedono stipendi più vicini ai colleghi europei. Gli Unicobas si sono ritrovati in bicicletta davanti a Montecitorio per protestare contro il ‘disordine dei cicli’. C’è, poi, un corteo più piccolo del Movimento Scuola Libera. Mentre al Senato ci sono quelli dello Snals. Il cardinale Sodano, quella stessa mattina, parlando alla Domus Mariae, dice che prima o poi si arriverà alla parità scolastica. Gli studenti, arrivati da tutta Italia si distribuiscono. Ognuno appoggia e si dirige verso quelli che pensa gli siano più vicini idealmente. La maggior parte chiede più soldi per la scuola pubblica, sciorinando cifre e dati presi dai giornali o da chissà dove. L’incazzatura della metropoli, direbbe Paolo Conte, è evidente. Il Corriere della Sera chiude il servizio sulla giornata con queste parole:

Intorno ai protestanti Roma esplode. La trombe da stadio e gli applausi quasi si sciolgono nel mare di clacson”.

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Religione e conflitto di interessi. Il settimanale cattolico Famiglia Cristiana intervista il ministro. De Mauro si lascia andare ad una confessione. Gli piacerebbe imporre la Bibbia come libro di testo in tutte le scuole. Per il sapere che contiene è una vera ‘bomba conoscitiva’, dice. Come quando all’inizio del mandato aveva parlato di Marx fautore dei diritti umani, anche questa volta si puntano i riflettori sulla proposta. Però, a differenza di altre volte, ottiene consensi. Anche da sinistra. Certo, qualcuno dice che forse imporre è un termine poco appropriato. E qualcun’altro come Sandro Curzi di Rifondazione Comunista, dice che è una buona idea. Solo che si dovrebbe veramente conoscere la Bibbia, per farla studiare. Certo che, a pochi giorni dal successo della Giornata della Gioventù Cattolica e nell’anno del Giubileo, la proposta del ministro non cade a sproposito. E proprio durante il Giubileo dei docenti di religione, l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, espone al ministro la richiesta di aumentare da una a due ore settimanali l’insegnamento della religione.

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Il conflitto di interessi. È Valentina Aprea, responsabile per la scuola di Forza Italia a lanciare l’allarme. L’accusa che viene fatta al ministro è ‘conflitto di interessi’ e ‘abuso d’ufficio ’. Perché? Avviene che proprio in quei giorni c’è il lancio dell’ultima fatica del professor De Mauro: il Dizionario della Lingua Italiana, edito da Paravia. L’esponente del Polo lo attacca perché approfitterebbe della posizione di ministro, quindi sotto i riflettori, per lanciare la promozione di una sua opera. Traendone di fatto un evidente vantaggio pubblicitario . L’accusa sembra più fatta per dovere d’ufficio che veramente sostenuta. Il ministro neanche risponde. Dal suo ambiente fanno sapere che, appena nominato ministro, ha disdetto tutti gli impegni editoriali con le case editrici con le quali collabora. E che l’uscita del Dizionario da lui curato era programmata da almeno un anno.

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Riforma dei cicli. All’improvviso spuntano come funghi i difensori della scuola elementare italiana. È la migliore d’Europa, che senso ha smantellarla? Se lo chiede l’ex ministro della pubblica istruzione Francesco D’Onofrio. E con lui tutto il Polo. Si annuncia una durissima battaglia parlamentare che il centro-destra condurrà contro il piano di attuazione della riforma dei cicli. Non appena verrà presentato. L’ex ministro spiega che la contrarietà nasce principalmente dall’abolizione delle scuole elementari e medie. Bisognava, invece, riformare gli ordinamenti degli attuali tre cicli scolastici. Magari incentivando la continuità tra di essi, non certo abolirne uno. D’Onofrio, come già aveva fatto Berlusconi ad agosto durante il Meeting di Comunione e Liberazione, dichiara:

”…se vinceremo le elezioni, una delle nostre prime leggi sarà l’annullamento dell’attuale riforma dei cicli voluta dall’Ulivo”.

E, dice ancora, che il centro-destra ha già preparato una sua riforma della scuola che presenterà durante la campagna elettorale.

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Il professor Angelo Panebianco_4. È il primo novembre e sul Corriere della Sera, in prima pagina, il professor Angelo Panebianco avverte: ‘Non uccidete la scuola elementare’. Siamo proprio nei giorni solitamente dedicati alla commemorazione dei morti. Vengono presentati, in parlamento, i primi contenuti della riforma dei cicli. La struttura la si conosceva già da febbraio, ma, chissà perché, ora sembra una assoluta novità. Forse è l’accelerazione finale che sta avendo la riforma a far svegliare tutti. Il professor Panebianco parla di ideologia pedagogica sbagliata che starebbe alla base di tutto. Egli si chiede come si fa a non capire che i bambini hanno bisogno di una scuola e i ragazzi adolescenti di un’altra. Insomma, c’è bisogno di una scuola elementare e di una scuola media. Nell’articolo, molto preciso, sostiene che chi vuole l’unione di elementare e media, non è stato attento ai reali bisogni dei propri figli quando essi avevano quell’età. L’ideologia pedagogica di sinistra sostiene, invece, che un bambino di 10 anni, l’età in cui si entra alle medie, non è pedagogicamente diverso da uno delle elementari. Ma ognuno ha i figli che si merita. E quelli del prof Panebianco sicuramente avevano le caratteristiche che il padre ha descritto. Vero è, invece, che la gestione di maestri e professori, scontenta tutti. Chi insegna quando – i maestri i primi due anni, poi insieme, poi solo i professori? Non si capisce. Tra i prof ci sono quelli che temono di perdere il loro status. Tra i maestri senza laurea chi ha paura di non essere all’altezza e chi sotto sotto si sente gratificato. Ma, ormai, tutti i detrattori della riforma hanno trovato il punto debole e battono incessanti il chiodo. Anche altri professori, tra cui Giulio Ferroni, docente di Letteratura Italiana alla Sapienza, si dicono d’accordo con il collega Panebianco. Il rischio di una ‘secondarizzazione’ del primo ciclo è evidente. Non tiene conto delle specifiche caratteristiche dell’età ed è solo frutto di ingegneria pedagogica astratta, dice Ferroni. Ma anche i professori Dario Antiseri e Lucio Russo, lamentano con diverse sfumature la perdita dei due cicli di base. Insomma, la situazione, come direbbe Celentano, ‘Non è Buona’.

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Fiducia ed ottimismo. Il ministro è comunque fiducioso. È lui stesso a dirsi ‘insanamente ottimista’, sulla possibilità che gli oppositori della riforma possano cambiare idea. A Berlusconi, che minaccia una durissima battaglia in parlamento, De Mauro dice che quando leggerà per bene la riforma anche lui dovrà ricredersi. Non ci sarà nessun terremoto e nessun taglio di personale. Il piano di attuazione della riforma sarà graduale e avverrà nell’arco di cinque anni. Per ora, a settembre 2001, partiranno solo per i primi due anni delle elementari. Per tutto il resto si vedrà l’anno dopo. Al Polo che obietta che è una riforma illiberale, De Mauro sfodera uno degli argomenti che, secondo lui, dovrebbe stoppare ogni polemica. Egli dice: “è vero proprio il contrario. Uno degli obiettivi primari è quello di mettere in grado i docenti di capire a fondo i loro studenti… Dovranno fare, come don Milani, continue domande ai loro ragazzi: cosa fai? E poi condurli per mano lungo le strade della matematica, della lingua italiana ma anche chiedersi: quando qualcosa non funziona dove posso aver mancato? Berlusconi e altri possono essere contrari a questo? Non oso pensarlo. Sono convinto che una volta letto il piano l’onorevole Berlusconi convenga che ci sono molti aspetti positivi”. Rileggendo queste parole si possono pensare solo due cose: o il ministro è un grande stratega politico o è malato di ingenuità. Sfoderare con Berlusconi la carta segreta di don Milani, non è propriamente un’ottima mossa. Il ministro, sa, perché lo sa, che sia a destra che a sinistra, i detrattori del prete scomodo sono tanti. Anzi, tra di loro, quelli che vogliono una scuola dura e pura, fanno iniziare l’era della decadenza proprio da don Milani. E quindi evocarlo è quantomeno rischioso. Ma il ministro De Mauro se ne frega. La sua è una missione, vuole convincere. Infatti, pazientemente spiega che il testo verrà portato alla discussione in parlamento e che ci saranno 45 giorni di tempo per discuterne ed eventualmente modificarlo. Perché il testo non è blindato. Si premura solo di dire che non permetterà che venga stravolto.

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I problemi comunque non mancano. Il ciclo di base diviso in blocchi di 2 anni + 3 anni + 2 anni, non convince. C’è inoltre la questione della formazione degli insegnanti. De Mauro vorrebbe una formazione universitaria unica per chi insegnerà nel ciclo primario. Il ministro dell’Università Zecchino è contrario. L’idea di Berlinguer di volere i due ministeri accorpati non era peregrina: almeno si evitavano conflitti come questo e discussioni più o meno inutili.

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Complicazioni. La situazione è confusa. Tutti, chi più chi meno, sono contrari a questa riforma. C’è chi lo dice apertamente, chi cerca di nasconderlo. L’onorevole Casini del Ccd afferma che stanno sfasciando una delle poche cose che funzionava in Italia, la scuola elementare. Un sondaggio pubblicato dal settimanale L’Espresso, fa emergere che l’unificazione di elementari e medie non convince quasi nessuno. Sono contrari il 55% dei maestri, il 50% dei professori delle medie e il 49% dei professori delle superiori. La Cisl è apertamente contro la praticabilità della riforma. Mentre la Confindustria suggerisce di farla partire solo come sperimentazione in pochissime scuole. Le associazioni dei genitori presentano ricorsi al Tar perché ritengono che la riforma sia incostituzionale. Ma la campagna elettorale per le elezioni del 2001 è partita. E Berlusconi, certo del consenso di insegnanti, famiglie e studenti, dice che eviterà questa altra grave ferita all’Italia. Come promesso, se vincerà le elezioni cancellerà la riforma.

L’ottimismo del ministro comincia a scemare. “Io non mi intendo di politica. Purtroppo ho fatto finora un mestiere completamente diverso, mi sono occupato di scuola per 40 anni, e tornerò, penso, presto a farlo”. E aggiunge:

Il piano di fattibilità dei cicli non è un Regio decreto come la Riforma di Giovanni Gentile che fu imposta a tutti. Sarà oggetto di una discussione in Parlamento, l’inizio di un cammino”.

E il professore si inventa politico: il suo slogan diventa ‘miglioriamo insieme la riforma, non buttiamola a mare’.

Ma poi, va ancora oltre. Nella trasmissione Porta a Porta il ministro dichiara che se il parlamento lo chiede, il centro-sinistra è disposto a far slittare la riforma. Poi si spiega. Per il prossimo settembre partirebbero solo i primi due anni del primo ciclo, perché fin qui è tutto pronto. Slitterebbe di un anno la partenza delle superiori, perché lì i curricoli si devono ancora decidere. Ma il chiodo fisso della trasmissione di Vespa è la sparizione delle elementari. O delle medie, a seconda degli interlocutori e delle relative preferenze. Tra gli altri intervengono Pippo Baudo e Pippo Franco. Ricordano i loro trascorsi scolastici di bambini con il grembiule e la cartella con la merenda infilata dentro. Il ministro cerca di dire che il ciclo primario è la prosecuzione dell’esperimento degli istituti comprensivi (elementari e medie nello stesso istituto) voluti dal ministro D’Onofrio. In studio gli risponde il leader del Cdu Rocco Buttiglione. Il quale dice che la riforma ‘è immatura e intempestiva, inattuabile a breve scadenza’. Tra l’altro, l’esponente del Cdu, rileva che dal piano non sono chiari i contenuti programmatici dei diversi cicli.

Va poi in onda l’intervento registrato dell’ex ministro Berlinguer, che è considerato da tutti il padre di questa riforma. Parte sparato, Berlinguer. Non accetta la strumentalizzazione di chi dice che verranno distrutte la scuola elementare e la scuola media. Anzi, sostiene che con la riforma le due scuole verranno valorizzate. Spiega che succede già in tutta Europa che ci sia un ciclo unico di base e gli insegnanti collaborano insieme senza problemi. Anzi, pure in Italia, nelle scuole Steineriane, gli alunni frequentano un ciclo unico con tre insegnanti nei primi anni e sei o sette negli ultimi anni. Poi l’ex ministro propone l’affondo, e dice:

Il modello steineriano è stato scelto dai coniugi Berlusconi per i propri figli e sono certo che abbiano scelto il meglio. Il leader del Polo dia la stessa possibilità a tutti gli italiani”.

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La storia… siamo noi. Siamo a dicembre. Una mattina, così, all’improvviso e a ciel sereno, il capogruppo di Alleanza Nazionale alla Regione Lazio, fa una proposta. Vuole istituire una commissione che dovrà svolgere un’attenta analisi dei volumi di storia in uso nelle scuole. Egli dice per ‘evidenziarne le carenze e le ricostruzioni arbitrarie’. Il consiglio regionale approva la mozione. È un vecchio pallino del governatore della regione Francesco Storace: per lui i libri di storia in uso sono tutti di ispirazione marxista. De Mauro attacca il provvedimento con un articolo sul quotidiano Il Manifesto. Ma il problema è che anche dentro il Polo nessuno è d’accordo e Storace rimane isolato. Sia Fini che Berlusconi sconfessano l’iniziativa. Anche se cercano di minimizzare il loro dissenso perché il governatore, sentitosi abbandonato dai suoi, minaccia addirittura le dimissioni. Interviene sull’argomento il presidente del consiglio Amato. Spiega che la politica non può interessarsi dei testi scolastici e che la libertà non può essere imposta dall’alto. Da una commissione che ricorda passati regimi e chiedendosi alla fine, in tutto questo: “Che diavolo c’entra la Regione Lazio?”. A Storace i suoi fanno capire di aver esagerato. Ma il governatore non è tipo da marcia indietro e poi ce l’ha a morte con Berlusconi e company che lo hanno abbandonato. E si intestardisce: “Sono pronto a ritirare la mozione se verrà abolito l’insegnamento del novecento nelle scuole”. Poi, sarà che si avvicina la fine dell’anno, si calma. La commissione non verrà mai nominata.

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Buono-scuola. De Mauro sul buono-scuola, nell’ultimo scorcio del duemila, combina un pateracchio da non credere. Invitato a parlare alla conferenza nazionale sulla scuola del Ccd, la combina grossa. Forse inconsciamente per tenerseli buoni, forse perché ha un carattere che vorrebbe vivere e far vivere in pace tutti quanti, fa due cose.

Prima annuncia che la legge sulla parità approvata a marzo lui la considera solo un primo passo. E che bisogna migliorarla. Poi, a sorpresa, dice che non ha nulla contro il buono-scuola così come è stato proposto dalla regione Lombardia. Anzi, rivela che l’ipotesi del buono-scuola piaceva anche al presidente del consiglio Amato. Applaudito per questo, ma criticato per la riforma, le sue parole innescano una reazione catena. Parte subito il governatore Galan del Veneto. La sua regione farà come la Lombardia. Non è più pensabile ad una scuola gestita dallo Stato, devono essere le regioni a decidere.

La palla al balzo la rilancia subito Formigoni, il quale dichiara che se il Polo vincerà le elezioni il suo buono-scuola sarà esteso a tutto il territorio nazionale. Ma poi si spinge oltre. Chiede al governo di estendere da subito, con un emendamento alla finanziaria, la sua ipotesi semplice e chiara di rimborsare il 25% delle spese scolastiche alle famiglie.

Ancora non si è manifestato il dissenso, e Buttiglione già profetizza che il ministro è troppo ingenuo e non conosce i suoi.

“Prima di accettare il buono-scuola, lo butteranno giù”, dice.

E infatti. Iniziano i verdi a dire che ‘il ministro manifesta uno stato di confusione tale da assecondare le derive discriminatorie dei più estremisti tra i governatori’. È poi il segretario regionale della quercia milanese a spiegare al ministro che il buono-scuola di Formigoni, di fatto, rimborsa solo chi frequenta le scuole private. E senza nessun limite di reddito. In effetti l’inghippo c’è. Formalmente è per tutti, ma alla fine ne beneficiano solo chi iscrive i figli alle scuole private. In pratica, le legge regionale dice che se non si superano le 400mila lire di tasse scolastiche non c’è contributo. Poiché iscrivendosi alla scuola statale non si supera questa cifra, diventa pacifico che a beneficiarne siano solo gli iscritti alle private.

E scoppia subito un conflitto di attribuzione tra stato e regione. La delibera del consiglio regionale lombardo è impugnata dal Commissario governativo che esprime dubbi sulla sua costituzionalità: non si possono spendere soldi destinati a tutti gli alunni, solo per alcuni. In pratica, alcune parti della delibera, dovevano essere sottoposte al vaglio del governo per il via libera. Formigoni non ci sta. Lo stato non può imporre la sua decisione, dice. La regione è autonoma e secondo lui non deve chiedere nessun permesso al governo. Ne fa una questione ideologica. Afferma che è una presa di posizione contro le regioni amministrate dal centro-destra e fa sapere che non si fermerà. Gli animi si scaldano. Gli studenti e la sinistra, come avevano manifestato contro la delibera regionale, così organizzano un sit-in davanti alla regione per festeggiare il suo blocco, voluto dal governo

De Mauro, intanto, corregge il tiro. È per la parità senza alcun dubbio. Ma sul buono-scuola c’è bisogno di più equità. Quello della regione lombarda favorisce solo i redditi alti ed è passato a maggioranza nel consiglio. Di fatto, forzando la legge regionale sui fondi dello stato da assegnare a tutte le scuole. Poi, trovatosi a Milano, si lancia nel dire che se la regione continuerà nel suo intento, perderà tutti i sussidi per il diritto allo studio. In pratica la questione diventa tecnico-amministrativa: il consiglio regionale per dare i buono-scuola non può utilizzare i fondi per il diritto allo studio di tutti. Togliendoli, spiega il ministro, proprio alle fasce disagiate che ne avrebbero più bisogno.

Formigoni che al momento non è a Milano, non perde occasione per rintuzzare e polemizzare anche da lontano. Per prima cosa esordisce dicendo che il ministro è impazzito. Che non conosce le leggi e il diritto, e che ha una concezione aberrante sui fondi statali. Fa notare che De Mauro non ha atteso la decisione della Corte Costituzionale da lui stesso invocata, e che quindi non ha rispetto per tale organo. E che, alla fine, è come se avesse detto: “Se la Lombardia non si adegua, io la punirò”. Formigoni aggiunge che chiaramente la Lombardia non si adeguerà. Naturalmente il ministro non ha mai fatto una tale minaccia, ma l’intelligente e simpatico sillogismo forzato di Formigoni glielo ha fatto dire. Intanto sfilano gli studenti e la Cgil organizza petizioni contro tutta la politica scolastica della regione Lombardia.

GENNAIO – MAGGIO 2001

Ministro boccalone e bocca larga. Il ministro pensa di poter dire tutto quello che gli passa per la testa. E poi, abbocca facilmente a quelle domande che forse non sono neanche tranelli, ma che possono diventarlo a seconda di come si risponde.

E’ il gennaio del 2001. Le vacanze natalizie sono passate in fretta. Il lavoro al ministero non manca, le novità sono tante, i problemi lo stesso. De Mauro ha appena nominato i nuovi Direttori Scolastici Regionali, ne ha nominati 18 perché due sono ancora da definire. Saranno loro che autonomamente organizzeranno la scuola a livello regionale spazzando via i vecchi Provveditorati agli Studi. Appena prima delle vacanze di Natale, per la prima volta, ogni scuola ha eletto i propri rappresentanti sindacali interni, le RSU. Poiché ogni istituto è autonomo anche finanziariamente, saranno la controparte della dirigenza per decidere come spendere le risorse e come distribuirle in modo equo e controllato. È talmente una novità per il mondo della scuola che non se ne capisce ancora bene la funzione. Infatti, in questa prima tornata, verranno eletti in maggioranza coloro che già collaborano con i dirigenti. E così in sede di contrattazione saranno la parte e la controparte insieme.

In quei giorni prende il via, anche se non in forma definitiva, l’istituto nazionale per la valutazione delle scuole. Ci saranno nuovi criteri per evidenziare il risultato degli apprendimenti. La pagella intermedia sarà data non solo alla fine del primo quadrimestre, ma ogni due mesi. È un modo, spiega il ministro, per seguire con serietà e analisi approfondita il percorso che ogni singolo studente sta compiendo.

Poi, parlando di innovazione, spiega ancora il ministro, c’è bisogno di superare l’interrogazione come solo modo per misurare l’apprendimento. E propone prove oggettive scritte capaci di rilevare meglio quale sia la preparazione dello studente. Ricorda, anche, che l’interrogazione in alcuni paesi come l’Inghilterra è superata dalla metà dell’ottocento. E che sia all’Università che alle superiori il metodo di valutazione sono le prove oggettive scritte.

Ma come sempre, appena si parla di valutazione, nonostante il ministro abbia spiegato che tutto sarà fatto per assicurare più rigore, ognuno capisce quello che vuole. O almeno il contrario. Partono dai giornali gli articoli di coloro che criticano la scuola sempre e comunque, dando l’impressione che quasi godano dei suoi malanni. Sono persone serissime e competenti. Sono sia di destra che di sinistra. Questa volta dicono che sono tutte baggianate e che bisogna riscoprire il sette in condotta per ridare finalmente serietà e rigore alla scuola.

La risposta del ministro è questa:

Come no? Ma ad alcune condizioni: il ripristino del primo Gabinetto Mussolini, e se venissero garantiti 20 anni di dittatura, il ritorno alle elementari di quel tempo quando un quarto dei bambini arrivava alla quinta elementare e il 10 per cento si iscriveva alle scuole superiori. Se l’Italia tornasse ad essere il paese in cui il 70 per cento del reddito proveniva dall’agricoltura. Se chiudessero buona parte dei giornali, se venissero sospese le trasmissioni televisive e ripristinata l’EIAR e tutti andassimo a piazza Venezia. Il sette in condotta faceva corpo con questa visione dello Stato. Faceva corpo con le punizioni fisiche”.

Ma è a Genova che il ministro si scatena. Il tema del convegno è ‘Quando la scuola fa notizia’. Sono presenti cinquecento tra studenti e insegnanti, più un nutrito gruppo di giornalisti di tutte le testate. Il ministro chiede ai convenuti se può fare il ’pippobaudo’. Poi prende il microfono e si lancia nell’arena. Interroga i ragazzi, risponde a tutte le domande, mette in rilievo questioni, chiarisce altre. Dice di aver usato il termine latino REBUS, che significa ‘cose’ al plurale, e i giornali hanno riportato che è stato enigmatico. Avrà sbagliato lui ad usare il latino? Intanto sulla riforma che il centrodestra vorrebbe abrogare, lui è convinto che saranno le stesse scuole a non voler tornare indietro. Una volta assaggiata l’autonomia sarà difficile che ci rinuncino. Poi, alla domanda su qual è effettivamente il lavoro di un ministro, risponde:

Per 140 anni è stato un signore che emanava i programmi e gestiva gli insegnanti. Ma questo ruolo è ormai defunto: l’autonomia ha assegnato alle scuole una personalità giuridica, ci sono i direttori regionali e così il ministro si può occupare del livello di apprendimento delle scuole. Politicamente quella di Ministro della Pubblica Istruzione era una carica molto appetibile: egli poteva prendere un preside di Enna e, se per esempio, apparteneva ad un partito politico diverso, poteva trasferirlo in un’altra sede e a Enna poteva metterci un preside più affine politicamente. Il ministero era essenzialmente un luogo in cui si smistavano favori e disfavori a senatori e deputati. Le segretarie erano infilate in stanze enormi, dove decine di persone ricevevano biglietti e li mandavano a destinazione. Tutto questo fino a quando Berlinguer, Bassanini e Prodi hanno trasformato il sistema”.

La descrizione semplificata all’estremo, forse troppo, non piace affatto ai ministri che lo hanno preceduto. D’Onofrio respinge le accuse e lo invita a denunciare gli eventuali casi di corruzione che si sarebbero verificati durante il suo ministero. Giancarlo Lombardi va oltre. Dice che al ministro evidentemente il potere sta facendo perdere il senso della misura. E poi ancora: “Sta distruggendo la scuola ma continua a creare caos con le sue dichiarazioni”. Sarà, ma un po’ è vero che il ministro appena parla attira polemiche come un parafulmine attira i lampi.

E, ancora non si sono spenti gli echi di quando ha detto:

La classe dirigente italiana non legge, purtroppo ai libri preferisce l’elenco del telefono”.

E con dati alla mano ha informato che il 65% della nostra classe dirigente non apre neanche un libro all’anno, dicendosi per questo molto preoccupato. Anche su questo le reazioni non sono mancate: si sono sentiti chiamati in causa tutti. Chi ha bollato le sue parole come ‘fuori luogo e di cattivo gusto’, chi ha detto di leggere poco ma di aver appena finito di leggere un libro, e chi, arrabbiato, ha detto di non aver tempo per queste cose. Ma poi, ha precisato: “Intanto noi, imprenditori, abbiamo dimostrato di creare ricchezza, invece dalla scuola di De Mauro continuano ad uscire fior di somari”.

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Alla scuola? Ci penso io! Ma per la scuola è come per il calcio, tutti sono in grado di fare la formazione della nazionale. Così, tutti dicono come secondo loro dovrebbe essere la scuola. E in questo non manca all’appello nessuno. Trapelano appena alcune ipotesi fatte all’interno della commissione che sta elaborando i piani di attuazione e i programmi per i cicli. Si parla, per la storia, per non incorrere in ripetizioni e sovrapposizioni, di un unico curricolo verticale che parte dai dieci anni e arriva ai quindici. Si tratterebbe di studiare tutta la storia per una sola volta, in modo da farla coincidere con la fine dell’obbligo. Chi prosegue farà poi gli opportuni approfondimenti. Praticamente non è una notizia, è solo una delle ipotesi che è stata vagliata. Ma nessuno è d’accordo.

Subito gli insegnanti di storia, le associazioni specifiche e alcuni eminenti studiosi della materia, dicono che in questo modo si decreta l’abolizione della disciplina. Il coordinatore di Prisma (Progetto per la rivalutazione dell’insegnamento e dello studio del mondo antico) arriva a dire che se passa la riforma loro continueranno ad insegnare come hanno sempre fatto, ignorandola completamente. Ci sono, invece, altri che molto più opportunamente, pur nella critica avanzano anche delle proposte. Infatti, 33 storici, tutti di altissimo valore scientifico, tra cui Gaetano Arfè, Francesco Barbagallo, Giuseppe Galasso, Ernesto Galli Della Loggia, Rosario Villari, Pasquale Villani e molti altri, inviano al ministro un documento nel quale dicono di essere in disaccordo sul percorso unico di storia così come è stato prospettato. Propongono invece due percorsi quinquennali: il primo dal terzo al settimo anno del ciclo di base e il secondo per tutti i cinque anni del ciclo secondario. In questo modo chi si diploma farebbe sì due volte la stessa storia, ma in rapporto all’età, la prima volta affrontando uno studio più semplice per poi passare a quello più approfondito. Nel documento suggeriscono anche di dare, nel ciclo primario, molto più spazio alla storia nazionale ed europea, per rafforzare l’identità culturale italiana e non lasciare che lo studio dello sviluppo mondiale ne pregiudichi la valorizzazione.

In questo clima in cui ognuno si inserisce con la propria idea, arriva al ministro un altro suggerimento, sebbene un po’ inatteso nella forma. A scrivergli una lettera aperta sul Corriere della Sera, è il suo predecessore, Luigi Berlinguer. De Mauro gli dirà, in una uscita pubblica, che avrebbe anche potuto telefonargli. Ma chissà, sarà la voglia di comparire, una punta di nostalgia. Fatto sta che Berlinguer ricorda all’amico De Mauro di inserire la musica nei nuovi curricoli del primo ciclo e in parte anche del secondo. Gli ricorda l’importanza della musica nella cultura e nella formazione dell’uomo. E come la scuola italiana, nonostante i tentativi, non sia riuscita mai a considerarla tale.

Dice:

Parlo della musica per tutti, e dell’apprendimento della musica vocale strumentale in senso pieno. Altra cosa è l’educazione musicale, che è integrativa e non sostitutiva delle prima. Non solo saper ascoltare, ma suonare”.

De Mauro assicura che è d’accordo, ha preso nota e si impegnerà in tal senso.

*

Problemi… Ci sono, tra gli altri, un paio di problemi in questo febbraio che assillano non poco il professor De Mauro. A causa dei ritardi nella pubblicazione delle graduatorie dei vincitori di concorso, ora finalmente pronte, si dovrebbero mandar via i supplenti che stanno insegnando al posto dei vincitori. In pratica, interrompendo la continuità didattica e creando ulteriori disagi. Poi, gli fanno notare al ministero, se parte la riforma, nel 2007 si prevede una cosiddetta onda anomala che travolgerebbe la scuola superiore. Perché? Lui chiede. Gli rispondono che convivendo insieme la riforma e il vecchio ordinamento, nel 2007 si iscriverebbero al secondo ciclo quelli che escono dai sette anni del ciclo riformato in aggiunta a quelli vecchi. Nell’anno di confluenza, si avrebbero difficoltà di personale, di edilizia scolastica e di trasporti. Lo SNALS ne fa una bandiera. E chiede, per questo, che tutta la riforma slitti di almeno un anno. Che in fondo sposterebbe solo il problema. Insomma, sembra che la questione sia tutta nell’arrivare sani e salvi alle elezioni, poi si vedrà.

Per il primo punto, con un decreto, il ministro assicura la continuità didattica lasciando gli insegnanti nelle classi dove stanno lavorando. Chi dovesse essere scalzato dal vincitore di concorso, avrà assicurato il punteggio fino alla fine della supplenza. Per la questione dell’onda anomala, il ministro prende tempo per pensare ad una soluzione.

*

Il pianto antico. È il 22 febbraio 2001. De Mauro è a Napoli per partecipare ad un Simposio Internazionale organizzato dai maestri di strada del progetto Chance. Si sente a casa sua. Siamo in un salone del bellissimo Castel dell’Ovo, c’è tutta la Napoli intellettuale, borghese e di sinistra. Ci sono psicologi e pedagogisti nazionali ed internazionali. C’è un uditorio di insegnanti e dirigenti motivato e attento. Il titolo del Simposio è ‘Il chiasso e la parola. Progetti per adolescenti in contesti metropolitani’. Il ministro sta lì dalle dieci di mattina. Ascolta i suoi colleghi dell’Università, poi le esperienze di scuole difficili nei quartieri di New York. Prende la parola prima della pausa di metà giornata. Sta parlando da un paio di minuti quando si mette le mani sugli occhi e scoppia a piangere. Qualcuno pensa ad un malore. Ma lui si riprende subito e rassicura tutti dicendo: “… è stato uno sfogo, scusate, è che mi sento in famiglia”. Beve un bicchiere d’acqua, fa riferimento alla riforma che tutti volevano e che ora nessuno vuole più, alle difficoltà, ai bastoni fra le ruote lì, al ministero, e a questo tipo di stress che non è abituato a sopportare. In fondo, il suo ottimismo iniziale, quando aveva detto che le riforme della scuola avrebbero dovuto essere il chiodo fisso di tutto il governo, è andato via via scemando. È successo quando ha capito che la scuola, per la politica, oltre a suscitare poco interesse, spesso diventa un problema. Con gli alleati di governo, con i sindacati, con i poteri forti, come per esempio, con la chiesa. E questo il ministro già lo sapeva, non è l’ultimo arrivato. Ma un conto è saperlo, un conto è vivere tutti i giorni la sensazione di essere sopportato. Lui che con il suo entusiasmo caratteristico parla di ‘scuola di tutti’, ‘non uno in meno’, e sente, aprendo una porta, un suo alto funzionario che si sfoga con gli altri usando parole come: “Ma dove sta scritto che tutti debbono andare a scuola?”.

Insomma, la contraddizione è palese. Ci vuole forza fisica e mentale per affrontare un ambiente se non ostile, certamente non favorevole. E così, al ministero, il suo pane quotidiano è fatto di piccoli ritardi, incartamenti che non passano di mano, dimenticanze opportunamente studiate. Ma a chi lo dice? Praticamente sembra che nessuno sia con lui. Se la destra va all’attacco, da sinistra qualcuno lo paragona a D’Onofrio e parla di sfascio della scuola italiana con questa riforma. Sembra che si goda a vederlo in difficoltà. Paradossalmente, solo il cardinale Carlo Maria Martini ha parole di conforto nei suoi confronti. E dice, mosso forse da pietà cristiana e vedendolo in difficoltà:

La riforma deve essere vista come un’impresa comune a cui cooperare e a cui dare il proprio contributo, anche da diversi punti di vista. Perciò, a differenza di come si è sviluppato, soprattutto a livello mediatico e politico, crediamo che sarebbe molto opportuno che il dibattito rimanesse lontano da ogni logica o tattica di schieramenti al fine di perseguire soltanto i veri interessi degli studenti e delle famiglie”.

Beh, non c’è che dire, queste ‘sante’ parole avrebbero dovuto, se non essere pronunciate, almeno appoggiate e fatte proprie da tutto il governo, come minimo. Invece, silenzio.

Dopo le lacrime De Mauro avrà, attraverso un’intervista, la solidarietà di Luigi Berlinguer. Che dice di provare grande affetto e comprensione per l’amico. E ricorda che loro non fanno politica per guadagnare, ma per spirito di servizio. Certo che bisogna essere più duri per affrontare un lavoro come questo; lui ci è più abituato per aver fatto politica da sempre, ma Tullio su questo fronte è scoperto. Interessante nella stessa intervista un particolare che è come se sfuggisse di bocca all’ex ministro. Dice,

Sono d’accordo con Berlusconi quando dice che ci vogliono dieci anni per cambiare l’Italia. Per la scuola ci devono dare dieci anni. I primi cinque li abbiamo fatti. Poi passeremo la mano”.

Praticamente è una specie di resa a qualche mese dalle elezioni. O forse preveggenza, o semplicemente realismo.

Supplemento di lacrime e spiegazioni.

Solo per senso di completezza, nello stesso convegno di Napoli, il giorno dopo piangerà un altro ministro, Livia Turco, titolare della Solidarietà Sociale. Collegata in videoconferenza da Torino, vuole dare il suo contributo al dibattito sulla scuola abbandonata dai ragazzi difficili. Dice che per recuperarli c’è bisogno della collaborazione di tutti. Poi, ricordando le lacrime del ministro De Mauro del giorno prima, le manca la parola, le viene un nodo in gola e anche a lei spuntano le lacrime. Puntuale scatta l’applauso solidale degli insegnanti napoletani, ormai avvezzi.

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Sarà poi lo stesso ministro De Mauro a spiegare, con una lettera sulla prima pagina del quotidiano La Repubblica, che cosa c’era dietro il suo pianto. Lui lo chiama eccesso di passione e di emozione. Lo stress conseguente è dovuto al fatto che la scuola sta troppo spesso sui giornali. E a questo, si rammarica, ha contribuito anche lui. C’è poi, l’esasperazione della conflittualità politica, a cui il ministro non ha contribuito, anzi ne è stato vittima. Fa un elenco di tutto quello che è stato fatto per la nuova scuola dal centro sinistra. Dall’autonomia, all’Istituto nazionale per la valutazione, alla riforma dei cicli con quello che ha comportato in termini di impegno, continuità, perseveranza. Sorvola sulla parità (ma sarà stata una dimenticanza?). Nel ragionamento del ministro è messo in risalto come c’erano richieste che da decenni il mondo della scuola aveva avanzato alla politica, e a cui nessuno aveva dato finora risposta. Ricorda, ancora una volta, che la scuola così riformata ha avuto come faro e guida l’articolo 3 della Costituzione. Vale a dire la rimozione di tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo della persona e impediscono la libera partecipazione alla vita della Nazione. Una scuola di tutti e di tutte, non uno o una in meno.

Ci tiene a sottolineare che è previsto, per la prima volta in una legge sulla scuola, che ogni tre anni governo e parlamento saranno tenuti a verificare come stanno andando effettivamente le cose nelle scuole italiane. Sono queste, conclude, le ragioni ‘di quel di più di passione e di emozione’ che lui ha messo nel suo lavoro e che spera gli vengano riconosciute. E per questo, spera, gli vengano perdonate le lacrime.

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Orecchie d’asino e imbecillotti. All’inizio di marzo il ministro è invitato dal rettore dell’Università Cattolica di Milano a tenere una lezione di linguistica. Ci sono altri studiosi della materia. Nell’aula Pio XI dell’Università, le prime tre file sono occupate dai docenti, poi tutti gli studenti assiepati. Sono le 14.30, si inizia. Una vera e propria ovazione viene riservata al Rettore. Gli studenti gli tributano dieci minuti di applausi. Un segnale di affetto e di riconoscenza. Lo stesso rettore, appena dopo, dà la parola al professor De Mauro, ringraziandolo per la sua cortese presenza in veste di studioso. Il ministro sta per iniziare a parlare, solleva gli occhi verso la platea che ha di fronte e vede che tutta l’aula, in massa, si alza in piedi. In silenzio, gli studenti mostrano centinaia di fotocopie con la sua faccia sormontata da due orecchie di asino. Un solo grande manifesto viene esposto in fondo e dice: “Gli animali si addestrano, gli uomini si educano”. Poi, in religioso silenzio, in fila, se ne vanno tutti lasciando l’aula vuota. Se si escludono le prime file, quelle dei docenti, non c’è più nessuno.

Il ministro tenta di fermarli, chiede loro di restare e di esprimere il dissenso con le parole. Quelli neanche rispondono. È una protesta inscenata da Ateneo Studenti, un gruppo vicino a Comunione e Liberazione. Sono contro la riforma della scuola che secondo loro abbasserà il livello culturale anche dell’Università. I professori tentano di scusarsi, ma la frittata è fatta. Il rettore non interviene subito sull’argomento ma convoca il senato accademico per prendere le distanze da queste forme di protesta che, dice, non si addicono al decoro dell’università. Il ministro alla fine non se la prende più di tanto. Ostenta sicurezza, e afferma:

È stata la mia prima contestazione, ma erano solo quattro imbecillotti… mi è dispiaciuto solo che non si sono fermati, gli avrei spiegato che la scuola che abbiamo in mente è di alto livello culturale e vuole garantire a tutti un’alta preparazione”.

Ricorda solo che gli stessi ragazzi, al Meeting di Rimini dell’estate scorsa, avevano applaudito fortemente Berlusconi che presentava la scuola dell’impresa, di internet e dell’inglese. E ora, invece, se la prendono con la scuola che secondo loro sarebbe dell’addestramento e non della cultura.

Il Ppi e i giovani universitari cattolici prendono le distanze dalla protesta inscenata contro De Mauro. Chiamano ‘talebani’ i ragazzi vicini a Comunione e Liberazione, soprattutto perché si sono sottratti al confronto sollecitato dallo stesso ministro contestato.

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Si smobilita. Siamo a marzo e nel governo ormai c’è aria di smobilitazione. I sondaggi danno vincenti Berlusconi e il Polo. Ma non di tantissimo, e un recupero in questa fase è sempre possibile. Basta crederci, avere un programma adeguato e persone giuste per spiegarlo. O, se vogliamo, per pubblicizzarlo.

De Mauro nelle varie uscite pubbliche a chi gli chiede se si candiderà con il centrosinistra, annuncia che tornerà al suo lavoro all’Università. C’è da dire che, molto probabilmente, nessuno lo propone tra i possibili candidati. Rutelli, il candidato premier, ha il suo bel da fare con le liste, i nomi da inserire, le caselle da riempire, gli equilibri da rispettare. E poi, ogni minuto scoppia una polemica. Figuriamoci se pensa al professor De Mauro. Lui fa buon viso a cattivo gioco. Ma dentro, un po’, si sentirà preso per i fondelli.

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Immobilismo e novità. Sulla scuola il governo di centrosinistra ha fatto molto. Sono andate in porto moltissime novità, dopo decenni di immobilismo la scuola si è mossa. Ma di tutte le cose che sono partite, nessuna ha cominciato a marciare. Forse neanche a camminare veramente. Ha fatto solo i primi, timidi, passi.

Luigi Berlinguer intanto gira l’Italia per presentare il suo libro sulla esperienza di ministro della pubblica istruzione. Il libro si chiama ‘La scuola nuova’ e la prefazione è di Tullio De Mauro.

Per la riforma, più che un cammino in salita, lui dice che si è trattato di scalare una parete di ghiaccio. Le difficoltà sono state tantissime, ma alla fine ce l’ha fatta. La nuova scuola ormai è una realtà incontestabile.

E sintetizza i punti fondamentali, che sono:

  1. Autonomia
  2. Riordino dei cicli
  3. Legge sulla parità
  4. Estensione dell’obbligo scolastico
  5. Nuovo contratto del personale scuola
  6. Istituto nazionale di valutazione.

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Visioni e visionari. Gli ultimi scampoli di una visione diversa della vita e della società si giocano anche sulla scuola. Avviene tra aprile a maggio del 2001, in piena campagna elettorale. E questa visione verrà sconfitta.

Siamo ai primi di aprile, il ministro De Mauro e Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil, si trovano a Milano. Si parla di immigrazione, in un istituto tecnico. La platea è fatta in gran parte di studenti.

Cofferati dice:

Il futuro è una società multietnica, e non è una previsione ma un fenomeno certo. La riforma dei cicli scolastici ha in sé tutti gli strumenti per potenziare le politiche di accoglimento”.

Il ministro parla della riforma che partirà a settembre. Alla fine una domanda d’obbligo se ‘il 13 maggio dovesse vincere le elezioni la Casa delle Libertà, tutto il lavoro degli ultimi anni verrà vanificato?’. De Mauro risponde che è impossibile. Il processo è avviato e nessuno potrà farlo tornare indietro. Poi, fa l’esempio dei presidi che hanno avuto un consistente aumento di stipendio e la funzione del ruolo dirigenziale. E non credo, dice, che abbiano voglia di tornare a com’erano prima.

Qui però tutti, anche il ministro, giocano a confondere e a confondersi. Si omette di dire che delle sei novità che sono state elencate e che sono il fiore all’occhiello di Berlinguer, l’eventuale vittoria di Berlusconi bloccherebbe solo la riforma dei cicli, quella che ha tutti contro. Delle altre novità i giornali hanno sempre parlato e continueranno a parlarne poco.

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Scaramucce. Le ultime scaramucce sulla riforma dei cicli, che si riveleranno alla fine tutte inutili, si giocano tra il Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione e il Consiglio di Stato. Ecco come. Il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione nella seduta del 10 aprile boccia il regolamento d’attuazione della riforma. Il Consiglio è un organo consultivo, il cui parere non è vincolante. È composto da 70 membri eletti e provenienti dal sindacato, dal mondo delle imprese e della scuola. Il blocco è stato votato da Cisl, Gilda e SNALS, che avevano presentato una mozione contro l’avvio dei cicli per il prossimo anno scolastico. Erano presenti una cinquantina di membri. Al momento del voto la Cgil ha abbandonato l’aula essendo in disaccordo con la mozione. Prima però ha chiesto la verifica del numero legale che la presidenza ha negato.

Il ministro afferma che il processo di avvio della riforma dei cicli, con le prime due classi della scuola di base, partirà comunque il primo settembre del 2001. Dice di trovare paradossale il parere del Consiglio Nazionale che prima gli chiede delle proposte tendenti a migliorare le indicazioni curricolari, e poi alla fine boccia tutto. Gli sembra che succeda come al personaggio di Luca nella commedia di Eduardo, ‘Natale in casa Cupiello’, che ripete ossessivamente: “Non mi piace il presepio”. È evidente che a quelli del Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione, non piace la riforma, conclude il ministro.

Intanto il 9 maggio, quattro giorni prima delle elezioni, il Consiglio di Stato esprime parere positivo sullo schema di regolamento dei nuovi curricoli della scuola di base predisposti dal ministro. L’organo costituzionale di suprema giustizia amministrativa, anzi, mette in rilievo che la riforma rappresenta un’autentica svolta positiva, ‘un’inversione di rotta rispetto al vigente ordinamento scolastico’. Praticamente la lettura dei giudici è ampiamente favorevole, anche in virtù del fatto che siano stati ‘individuati strumenti per far acquisire agli alunni competenze non solo conoscitive’. Quindi, si sottintende, anche una base culturale più ampia. Ora basta la firma del ministro, che nel frattempo si trova in Giappone, e poi tutto verrà inviato alla Corte dei Conti.

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Scelte elettorali. Da quello che si vede, risulta chiaro ed evidente che nella campagna elettorale il centro sinistra sceglie intenzionalmente di non parlare di scuola. E così, per non irritare la metà e oltre degli italiani che sono contro la riforma dei cicli, evita anche di ricordare tutte le altre cose che sono state fatte. Finanche di spiegarle. De Mauro aveva detto, ma non in campagna elettorale, che erano state fatte da Berlinguer (e continuate da lui) più cose per la scuola e per l’Università che da tutti gli altri ministri di prima messi insieme. Ma nessuno lo aveva ascoltato.

Gli strateghi dell’Ulivo scelgono per la scuola un programma che potrebbe essere sintetizzato così: per i prossimi cinque anni l’obiettivo dell’Ulivo è portare Internet in tutte le scuole, un computer per ogni studente. Poi, investimenti per ristrutturare le scuole; per portare gli stipendi degli insegnanti ai livelli europei; per finanziare il diritto allo studio, a partire dalle spese per i libri di testo. L’Ulivo prevede il diritto delle famiglie di scegliere il tipo di formazione, ‘garantito dalla parità tra scuola pubblica e privata’. In pratica nessuna differenza con il programma della Casa delle Libertà. E, per finire, come se non ci fossero stati loro al ministero negli ultimi cinque anni, neanche un accenno alle riforme in corso. All’autonomia, in primo luogo, e a tutto il lavoro finora svolto.

Ma è nel corso della campagna elettorale, in un dibattito televisivo tra Fini e Fassino, che si raggiunge il culmine. Tutti e due parlano di scuola, ma nessuno sa di cosa sta parlando. Buttano lì, nel dibattito, notizie false e insensate, muovendosi reciproche accuse senza capo né coda. Si percepisce che nessuno dei due conosce veramente la riforma. Gli scambi sono di questo tipo: Fini accusa la sinistra di volere un unico maestro per i sette anni del ciclo di base. Fassino risponde che ci saranno libri gratis per tutti fino al compimento dell’obbligo. Nessuna delle due cose è vera, ma intanto le dicono e ci litigano pure sopra. Insomma, sembra tornata la vecchia incompetenza, negligenza e disinformazione sulla scuola che negli ultimi anni, bene o male, era stata in qualche modo combattuta. Evidentemente senza successo.

Francesco Di Lorenzo

Post. De Mauro, appena dopo, dirà di avere un solo rimpianto. Che il Consiglio di Stato avrebbe potuto approvare un po’ prima i decreti sul riordino dei cicli e quindi farli andare in vigore. Invece, l’ufficio del Guardasigilli (il ministro Fassino) ritardò di un mese l’invio in parlamento del piano di fattibilità, e questo ritardo fu fatate. Il Consiglio di Stato approvò rapidamente i decreti, ma la Corte dei Conti se li tenne fino a dopo le elezioni, dando la possibilità al governo Berlusconi di cancellare tutto il lavoro fatto.

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