Novecento

Il  ‘Novecento’: un racconto

Appunti sparsi sul ‘900 letterario e non solo

1.Il Novecento italiano (con tutta probabilità)  ha il sapore di una caramella, il colore di un film e la sostanza di un libro.

Potrebbero essere queste, in sintesi,  le tre immagini simbolo del secolo ormai trascorso. La caramella per  il particolare sapore, il film per un unico possibile colore e il libro per la sostanza,  cioè per le idee e le convinzioni.

La prima immagine-simbolo è una caramella che si chiama 900 ed ha un  sapore nuovo e fresco, menta e liquirizia insieme. È la novità di una nota marca di dolciumi che avrà, nel corso del secolo,  un notevole successo commerciale.

La seconda immagine-simbolo viene direttamente dal film ‘Novecento’ di Bernardo Bertolucci. È una fantasia  un po’ più complessa e parte dalla trama. Racconta la storia  di due uomini che nascono nello stesso giorno in una grande azienda agricola dell’Emilia Romagna,  ma che appartengono  a due famiglie con differenti coefficienti sociali. Alfredo è il figlio del ricco proprietario, Olmo, invece,  figlio senza padre di Rosina, una contadina a servizio nell’azienda stessa. La loro vicenda si intreccia (sono nati nel 1901)  con le vicende della grande guerra prima, del fascismo e della lotta di liberazione poi, in una sintesi che li vede amici e rivali in alcuni frangenti, ma sempre uniti e comunque insieme.

Il colore del novecento potrebbe essere quello che si evince  dal film. Per alcuni  il colore sembra sia  il rosso (che effettivamente domina nelle scene e che viene consegnato anche come accusa). Ma a noi interessa il colore inteso in senso connotativo, la cifra di un insieme che è il nucleo della nostra storia, una storia che parte nelle prima metà del secolo e si sviluppa, per alcuni versi e in specialmodo per la letteratura, nell’altra parte del secolo, la seconda.

Infine, la terza immagine è sintetizzata nel libro di Vittorio Foa, ‘Questo novecento’. Il libro ci parla della difficoltà che la nostra nazione incontra nel togliersi di dosso la cappa di un marcato conservatorismo strutturale. E continua con i vari tentativi,  alcuni abortiti,  alcuni andati a buon fine,  di prospettare un’Italia dagli alti valori morali e politici. Tanto per intendersi, il sottotitolo del libro parla di ‘passione civile’ e di ‘politica come responsabilità’. Il tutto descritto da una figura come Vittorio Foa,  esempio di moralità assoluta e dedizione alla causa tutta protesa all’affermazione di una Italia migliore. Una figura, quella di Foa,  che forse non ha eguali o se ne ha, ne ha pochi. Un grande esempio di uomo.

Sintetizzando: potrebbe essere questa la sostanza del novecento?  Proviamo a scoprirlo.

 

  1. Si parte con qualche anno di anticipo. La data è nota: 1861, è l’inizio di una nazione. L’anno è questo, che lo vogliamo o no, ed è un riferimento (almeno generale) che bisogna dare, che è necessario fare. Da  qui (o da lì,  a seconda dei punti di vista) bisogna partire.

Quando,  passati 50 anni, nel 1911, Giovanni Pascoli  nel suo discorso ‘La grande proletaria si è mossa’, elencava tutto quello che in quegli accidentati anni si era fatto, malgrado tutto e malgrado l’handicap delle grandi difficoltà iniziali, il discorso era tutto incentrato sull’enfasi e poco e niente sulla realtà vera dei fatti. Ma, enfasi o no, quel poco che si era fatto in pratica era già molto. Date e viste le condizioni di partenza.

Nello specifico, il discorso di Pascoli  fatto a Barga, è catalogabile nella sezione  ‘interventismo- nazionalismo democratico’, di cui parla Vittorio Foa, e che dopo un po’ di anni perderà tutti i suoi connotati democratici  per assestarsi su posizioni opposte, quasi mai equilibrate. Intanto il discorso di Pascoli ebbe la missione di incitare gli italiani a credere nella guerra in Libia, una catastrofe immensa, preludio ad un disastro ancora più grande, quello della prima guerra mondiale. Naturalmente la buona fede di Pascoli non è in discussione, come la sua mancanza di visione prospettica, neanche emendata dal fatto che avrebbe potuto correggersi con delle scuse che non potè fare perché morì quasi subito, nel 1912.

Comunque i dati relativi all’analfabetismo sono lì a inchiodarci alle nostre e altrui  responsabilità e sono questi: tra il  75/78%  degli italiani nel 1861 era analfabeta; nel 1911, 50 anni dopo,  la percentuale era scesa al 38%. Qualcosa indubbiamente si era fatto nella direzione giusta, nonostante gli scarsi mezzi e i finanziamenti che sfioravano l’irrisorio. Si era tentato in tutti i modi anche  di fare gli italiani che  non ne avevano coscienza, che erano distanti non solo geograficamente dal sentire comune. Ci avevano provato dando il loro prezioso apporto  gli scrittori di letteratura popolare, De Amicis con Cuore, Collodi con Pinocchio, che indubbiamente avranno pure i loro detrattori (e nel contempo anche i sostenitori), ma il tentativo di unire su basi morali  (in alcuni casi troppo moralistiche), lo hanno pur fatto.

Accanto alla letteratura popolare, nel verso di una emancipazione in generale sostenuta, c’è da registrare l’aumento, seppur di poco, della produzione agricola. Il Pil aumenta al ritmo del 2,1 all’anno, nascono le prime e grandi imprese industriali nazionali: Pirelli, Marzotto, Ansaldo, Fiat. Intanto in quegli stessi anni, tra la fine del secolo e la prima guerra mondiale, emigrano, vanno via dall’Italia a cercar fortuna altrove, ben 10 milioni di italiani. Tra di loro la maggioranza sono contadini e meridionali, ma non solo.

Insomma, quando finisce l’epopea risorgimentale e con il raggiungimento del risultato dell’unità, fino alla fine del secolo, ma diciamo anche fino alla prima guerra mondiale, nel mondo si parlò dell’Italia, ma  solo ed esclusivamente attraverso il ‘melodramma’. In primo piano c’era il teatro alla Scala di Milano considerato il  tempio della lirica. E poi Verdi e Puccini, e ancora i librettisti, o scrittori di versi, come Boito, Giacosa, Praga.

Ormai i versi, siano essi scritti per la musica o solo per essere letti, vengono filtrati attraverso gli insegnamenti dell’avanguardia poetica francese, si tratta di Baudelaire, e di Verlaine, Rimbaud, Mallarmè. Arriviamo,   a piccoli passi,  ad adeguarci al moderno che intanto si era fatto avanti, e che noi italiani cominciamo a cogliere nei suoi vari aspetti. Naturalmente, è stato il melodramma che durante tutto l’ottocento ha rappresentato il tramite efficace e irrinunciabile dell’incontro della cultura italiana con altre culture europee: il nostro filo rosso, l’ancora di salvezza, il legame col mondo.

Contemporaneamente lo svecchiamento della cultura portava con sé, inevitabilmente,  anche un cambiamento della mentalità con cui si affrontavano le cose, e così alcune esplicite richieste di entrare con disinvoltura  nei meccanismi della nascente industria culturale,  furono da alcuni considerate scandalose (Gozzano) perché uscivano fuori dagli schemi soliti, altri, invece, (D’Annunzio) accettarono di entrarci senza farsi  tanti problemi.

 

Intermezzo_1_appunti

 

  • Furono 50 milioni gli uomini impegnati nella 1° guerra mondiale.
  • La nevrosi da guerra: che cos’è? Di essa si parlò nel V congresso di ‘Psicoanalisi’ che si tenne nel 1918 a Budapest. Si può affermare che la guerra portò morti, feriti e disturbati.

(La stima del numero totale di vittime della prima guerra mondiale non è determinabile con certezza e varia molto: le cifre più accettate parlano di un totale, tra militari e civili, compreso tra 15 milioni e più di 17 milioni di morti. Il totale delle perdite causate dal conflitto si può stimare in più di 37 milioni, contando più di 16 milioni di morti e più di 20 milioni di feriti e mutilati, sia militari che civili, cifra che fa della “Grande Guerra” uno dei più sanguinosi conflitti della storia umana).

  • Clemente Rebora fu una delle vittime di tale nevrosi (lo scoppio ossessivo delle granate nelle orecchie). La sua storia in breve: nel 1913 pubblica i Frammenti lirici con le edizioni La Voce di Prezzolini; nel 1915 viene richiamato alle armi, subisce sul Podgora un forte trauma cranico a causa di un’esplosione, lo shock conseguente con vari ricoveri tra il 1916 e il 1919 lo porterà  ad essere  riformato; l’esperienza – raccontata in Poesie Sparse – è decisiva. Tornato a casa, il poeta non è più lo stesso: crisi nervose, depressioni, gli viene diagnosticata una “nevrosi da trauma”; nel 1922 pubblica il suo secondo libro di versi, i Canti anonimi; nel 1928 ebbe una crisi religiosa che lo porterà dopo qualche anno ad essere ordinato sacerdote; dopo la conversione pubblica altri libri di poesie. Muore nel 1957.

di Francesco Di Lorenzo

(CONTINUA)

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