Giaccabianca

giacca biancaLa politica non dà felicità, oggi. E, più semplicemente, non dà felicità perché non dà piacere. Una sera, ma una sola, ho provato piacere nella sezione di un partito. Era una sera d’inverno e quindi faceva freddo, era tardi. Avevo io le chiavi della sezione perché quella settimana ero di turno a pulire per terra e a tenere aperta la baracca.

Democraticamente, come tutti gli altri, scopavo per terra e facevo i turni. Ora potrei dire che una sera in sezione invece di scopare per terra, scopai e basta . Ma non lo dico perché è troppo volgare e poi effettivamente non andò proprio così. Quindi, fate conto che non abbia detto niente. In quel periodo le serate erano sempre uguali, anche se non è il caso di lamentarsi perché lo furono anche in periodi di­versi. Successe però che finalmente riuscii a rompere quella monotonia. A mezzanotte in punto scendevo dalla casa di Maria, la mia fi­danzata. Il paese, le strade strette, la luce dei lampioni, con le mani nelle tasche del cappotto e il bavero alzato fu­mavo senza prendere la sigaretta dall’angolo della bocca. Era una Camel. Mio suocero, se ricordo bene, me ne aveva regalato un pac­chetto; invece ricordo ancora il sapore acre di quelle siga­rette che peraltro si possono trovare benissimo in tutte le tabaccherie ancora oggi.  Eravamo nel settantasei, un paio di secoli fa.

“Quanto può durare questa storia?”, fu la domanda che mi feci mentre con l’aria circospetta bussai al campanello di Giovanna e, senza far rumore per le scale, mi infilai nel suo apparta­mento. Due ore dopo, al massimo potevano essere le due e un quarto, rifeci la strada in senso inverso. La domanda che mi ero fatto all’entrata non me la ricordavo neanche più. Ero solamente soddisfatto; fino a mezzanotte qualche bacio innocente dato a Maria appena sua madre ci voltava le spalle, poi, per due ore i seni grandi, i fianchi, le gambe infinite, le labbra di Giovanna. A letto nella mia stanza accesi la terz’ultima Camel. Me la fumai nell’oscurità.

 

2.

(Enrico diceva di amare il jazz, ma lo ascoltava poco. Escluso alcuni assoli che lo entusiasmavano, si annoiava tremendamente con quei passaggi sempre uguali, monotoni, ripetitivi. Fu pro­prio a causa del jazz che conobbe Giovanna, una bionda con i seni che sbraitavano sotto la maglietta attillata).

Stavo con Maria nell’unico negozio di musica del paese e avevo chiesto al commesso l’ultimo disco di Rino Gaetano, quando vidi entrare due coppe enormi e appuntite che mi entrarono di­rettamente nel cervello. Giovanna, la proprietaria dei seni, prese dal banco un vecchio LP di Dave Brubeck e lo guardava affascinata. (Enrico si affrettò a dare, come se fosse stato lui il commesso, tutti i particolari del musicista, mentre Ma­ria ascoltava compiaciuta la bravura del suo futuro marito).

Le parlai di quel formidabile disco di Brubeck inciso insieme ai suoi quattro figli, tutti musicisti di alto valore [in ve­rità i figli erano tre, ma chi se ne frega]. La vidi affasci­nata. Decisi di continuare a dire fesserie anche perché Maria aveva l’espressione felice, il suo futuro marito sapeva un sacco di cose, era così intelligente. In situazioni come questa si può dire di tutto. La proprieta­ria dei seni non doveva essere molto preparata in materia. Comunque, in generale, basta non scendere nei particolari e si imbroglia chiunque.  Tutto finì lì.

Ora, se le date della formidabile incisione di Dave Brubeck insieme ai suoi tre o quattro figli non coincidono con il 1976, e non possono, questo non è un problema, almeno per me.

Quella sera avevamo una riunione del direttivo in sezione e mentre salivo le scale insieme ad altri quattro amici, vidi la testa bionda e i seni della mattina che si infilavano nel por­toncino a pochi metri da dove stavo io. Non feci che pensare a lei per tutta la durata della riunione. ( Ad un certo punto Enrico chiese con tutta la serietà possibile al segretario che presiedeva l’assemblea:

” Scusa, tu che sai tutto, sai per caso chi abita nel porton­cino appena prima della sezione?”

Il segretario fece una smorfia quasi di dolore: ” Ma che me ne frega di chi abita nel portoncino prima della sezione, sono io che ti ho fatto una domanda e tu non hai risposto”, disse in­furiato.

Era vero. Enrico non aveva sentito il segretario domandargli cosa ne pensava del fatto che i democristiani avessero chiesto un incontro. Così gli spiegarono gli altri.

Disse la prima cosa che gli venne in mente: ” I democristiani mi fanno schifo…e…e…avranno equivocato sul compromesso storico, pensano che siamo disposti ad entrare in giunta.” Il segretario fece prima un’altra smorfia poi un sorriso).

 

3.

Nemmeno una settimana e la conobbi. Non ho mai frequentato la sezione con tanta assiduità come in quel periodo. La salutai e le chiesi se aveva ascoltato l’ultimo disco di Dave Brubeck. Disse di no, come speravo. Mi offrii di far­glielo sentire. “Magari te lo presto”, dissi. “Va bene”, ri­spose. Ci scambiammo i numeri di telefono.

Quella sera in sezione scherzai con tutti. Il segretario stava spiegando un concetto molto difficile, l’importanza del “progetto a medio termine”. Era considerato molto bravo in economia, conosceva sei o sette termini e li usava sempre. Quando feci il mio intervento, come premessa dissi: ” vorrei prima di tutto complimentarmi con il segretario che ci ha spiegato in modo impeccabile concetti così difficili”, poi molto serio gli chiesi come faceva a conoscere l’economia se era laureato in lettere. Lui, altrettanto seriamente mi disse: “ho studiato”. Lo guardai, era soddisfatto.

 

4.

( Enrico non sapeva neanche lontanamente in che guaio si era cacciato.)

E come potevo prevedere che quella bionda di nome Giovanna, con quei seni che farebbero rivivere anche mio nonno, che parla di jazz, che mi chiama amore per telefono, che mi suc­chia talmente la lingua quando bacia che dopo mi fa male, fosse l’amante di GiaccaBianca?

(“Stai attento, io non so quando ti convenga” disse ad Enrico il segretario della sezione. “E poi, sai che ne potrebbe na­scere uno scandalo? Lo sai che i democristiani potrebbero strumentalizzare la cosa?”. “Vuoi dire che se mi uccidono”, disse Enrico, ” diranno che i comunisti stanno con la ca­morra?”. “No, no, dicevo solo che noi non siamo abituati a di­fenderci da queste contiguità”. Era uno stronzo…)

E poi, potrei anche farvi un favore, potreste sempre dire che stavo scoprendo dei legami nascosti, degli interessi che non dovevano venir fuori, e così anche noi avremo il nostro bel martire, anche voi cioè. Il segretario sorrise. Io invece tor­nai a casa e mi misi sul letto a pensare. Passarono due o tre minuti e cominciai a tremare e a sudare. Al posto di pensare mi venne una crisi di nervi. Quando finì avevo deciso. Avrei troncato la relazione con Giovanna, per il bene mio, della mia famiglia, del partito e di Maria. Cos’altro potevo volere di più. Enrico prese il telefono e compose il numero. Dopo otto squilli a vuoto posò la cornetta, Giovanna in quel momento non era in casa.

 

5.

(In pratica Enrico aveva conosciuto la donna di GiaccaBianca.

Anzi, ci andava a letto.

Questi intellettuali sempre così desiderosi di diventare ca­morristi, pardon, questi camorristi sempre così desiderosi di diventare intellettuali. La bionda Giovanna che andava all’Università fuori corso, aveva perforato con i suoi seni, probabilmente, anche il cervello di GiaccaBianca, che si era perdutamente innamorato di lei. Ma non è tutto. Per farsi ac­cettare la riempiva di regali e di soldi e di lussi e di al­tro. E nemmeno questo è tutto. L’aveva voluta vicino per controllarla perché come tutti i camorristi era geloso. Ma era anche sposato. Allora le aveva preso un appartamento e ci andava soprattutto di sera, senza farsi vedere. E quand’anche lo avessero visto, nessuno si sarebbe permesso di dirlo, quindi avrebbe potuto benissimo andarci anche di mattina. Però non ci andava perché era un camorrista fatto così.

Certo era che aveva voluto un’amante intelligente, studen­tessa, e che avesse pure qualche altra qualità di cui non staremo qui a descrivere i particolari.

Lui la chiamava una sola volta al giorno, di mattina, e le di­ceva se la sera si sarebbero visti o no. Aveva molti impegni, spesso stava molti giorni fuori insieme ai suoi galoppini per degli affari. Non la controllava più di tanto perché era in­teso che lei lo amasse. E se anche non l’amasse era inteso co­munque che lei non si sarebbe mai permessa di dirlo, né a lui, né ad altri. Per i soldi non c’era nessun problema. Le aveva dato cinque carte di credito di cinque banche diverse, che lei utiliz­zava a suo piacimento. Perché cinque carte di credito? E chi lo sa?)

Tutte queste cose me le ha dette Giovanna, qualcuna l’ho ap­purata io, indovinate quale.

 

6.

Giovanna era così, più o meno. Tralasciando la sensazione che si provava davanti alla forma del suo didietro – quella faccia non mi è nuova -, se per caso le chiedevi a che ora potevi sa­lire, ti poteva benissimo rispondere: adesso o mai più. Io che avevo una fifa tremenda per la situazione in cui mi ero cacciato, ogni minuto e mezzo decidevo di dirle che era tutto finito. Ogni tanto glielo dicevo anche. Lei mi ascoltava con gli occhi pensierosi, pieni di lacrime, facendo capire che mi capiva e che la sua era una situazione sfortunata. Io per la commozione ero sempre sul punto di dirle che stavo scherzando, ma mi trattenevo, so anche essere duro per tre o quattro mi­nuti. Così ci lasciavamo. Arrivavo a casa triste e sconsolato, e dopo neanche cinque mi­nuti, mi chiedo come faceva a cronometrare esattamente il tempo, lei mi chiamava al telefono e mi parlava di qualche sua scoperta, di una musica che aveva sentito, dicendo che poi ne avremmo parlato da vicino. Non so, nell’arco di sei mesi, alla ventesima volta che ini­ziai il solito discorso, ” sai non è possibile andare avanti, oltre alla mia paura c’è che non è giusto nei confronti di Ma­ria…lei… sta già scegliendo le bomboniere per il matrimo­nio…” Giovanna a queste parole si alzò e andò in bagno, la­sciandomi che ancora dovevo finire la frase. Tornò nuda dicen­domi con tutta la serietà possibile: “voglio un figlio da te, per ricordo”.

“Sei pazza”, dissi io. Poi continuando a guardarle i seni, “ma anch’io sono pazzo”, e facemmo l’amore per fare un figlio.

 

7.

(Enrico negli ultimi tempi sembrava più un automa che altro. Faceva tutto quello che gli altri gli dicevano, non discuteva di niente. Era strano vederlo sempre così accondiscendente con tutti. Il segretario della sezione disse in giro che Enrico stava cam­biando, lo vedeva maturato.)

Pensavo, possibile che questi camorristi siano così stupidi da non accorgersi che io sto con Giovanna? Possibile che nessuno mi abbia mai visto entrare nel portoncino? Pensavo anche a Maria. Che squallore se lo avesse saputo. La risposta me la diede Giovanna: “ti chiamo o quando lui se n’è appena andato oppure quando sta fuori”. Veramente quest’assicurazione non mi calmò. Quella sera attesi disteso sul letto, fumando. Poi squillò il telefono.

” Puoi venire, se ne è andato”, disse Giovanna.

Presi la giacca e uscii. Per strada guardai l’orologio, era l’una e quaranta. Mi venne in mente una battuta stupida, me la dissi lo stesso, “in fondo non è tardi, a casa mia si man­gia all’una e mezza”.

Appena entrato nell’appartamento di Giovanna, la vidi vestita come se stesse per uscire.

“Usciamo”, disse lei.

“Sei ubriaca?”, dissi io con una specie di smorfia.

“Non andiamo lontano, mi devi portare in sezione, voglio vederla”.

“Ma è tardi…”, cercai di dire io.

Giovanna già aveva aperto la porta e cercava di soffocare la risata che le era venuta. Cominciai a tremare. Questa è pazza, mi dicevo mentre scende­vamo le scale senza far rumore e nell’oscurità.

“Sono solo dieci metri”, disse Giovanna sottovoce, ” non aver paura”.

“E se ci vedono?” chiese Enrico, ma voleva dire “e se ci ve­dono proprio in questi dieci metri?”.

“Allora caro” disse lei molto suadente e sottovoce, “ci ucci­deranno tutti e due”.

Le mie mani tremavano nel mettere le chiavi nella toppa del portoncino che si aprì subito, e una volta dentro tirai un so­spiro.

“Un sospiro senza ponte”, disse Giovanna.

“Vaffan…”, repressi a stento. Ma lei se ne fregò.

Guardò i manifesti e le immagini alle pareti, io sembravo il padrone di casa imbarazzato e desideroso di far bella figura.  Girò tutte e due le stanze, poi volle entrare nello sgabuzzino del ciclostile.

“E’ il ciclostile”, dissi io.

“Lo conosco”, disse lei.

Mi sedetti sulla scrivania e per la prima volta quella sera incominciai a sorridere guardando come fissava le immagini alle pareti.

“Non dici niente?”.

Lei si voltò ridendo e disse, “no”.

Si tolse la giacca e cominciò a sbottonarsi la camicetta.

“Prendi quel manifesto e stendilo a terra”,disse.

“Ma è Gramsci!” Dissi io.

“Sì, è bello grande”, disse lei.

Enrico mentre toglieva le puntine dal muro pensò che in fondo quello era veramente il manifesto più grande e il pavimento era troppo sporco.

Si chiese anche se Gramsci avrebbe approvato. Concluse di sì.

 

(Quando finirono di far l’amore sul ritratto di quell’uomo che tanto ammirava, Enrico aveva gli occhi lucidi. Da terra, con la faccia appoggiata sulla spalla di Giovanna, fissò lo sguardo di fronte a sé. Un poco sfuocata c’era l’immagine di Berlinguer, che allora era vivo.)

 

di Fancesco Di Lorenzo

(pubblicato su Linus)

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