Bollettini

Bollettino n. 1

Si arriva presto al 1968.

A Menphis, nello stato del Tennessee, Martin Luter King che lottava per i diritti civili e contro la segregazione razziale viene assassinato.

A Città del Messico, attraverso un ampio viale si raggiunge la Piazza delle Tre Culture, con edifici aztechi, ispano-coloniali e moderni. Sono circa seimila gli studenti che si ritrovano lì per assistere ad un comizio. Improvvisamente si vedono in cielo due bengala. Comincia l’inferno. Quei due razzi sono il segnale convenuto, soldati e poliziotti cominciano a sparare sulla folla. La carneficina dura quattro ore, forse qualcosa in più. Gli studenti sono circondati, ogni tentativo di fuga è bloccato. Sono ore di pestaggi, arresti, torture e omicidi. Poi tutto tace con quattrocento morti e più di mille feriti.

Dubcek, in Cecoslovacchia prova la via delle riforme del sistema. Viene rovesciato dall’intervento militare sovietico. La ‘Primavera di Praga’ ha fatto sognare  la libertà per i compagni oltre la cortina di ferro. Vacillano le sicurezze ideologiche dei partiti unici.

Vietcong e nordvietnamiti sferrano l’Offensiva del Tet. Gli Americani sono in difficoltà. Monta la protesta giovanile contro la guerra.

 

Bollettino n. 2

Il ’68 a Somma Vesuviana. Un gruppo di ragazzini che frequenta la scuola media locale come ogni sera gioca a pallone nella piazza. La piazza è enorme,  è un serata  di metà ottobre mite come sempre; c’è chi passeggia, chi discute di calcio e chi, appunto, ha ricavato il rettangolo di gioco  proprio davanti al cancello della scuola media.  La partita è accesa e come d’obbligo nessuno vuol perdere. Poi il pallone finisce oltre il muretto dell’edificio scolastico. Ci vuole un attimo a recuperalo, il cancello e l’inferriata che delimitano la scuola sono alti poco più di due metri. I piedi sul muretto, un balzo ed è fatta. La partita finisce. Ci si siede proprio sul gradino della scuola, con le spalle appoggiate al cancello. Tra gli sfottò di chi ha vinto e le recriminazioni dei perdenti, qualcuno butta lì che tutte le scuole sono chiuse e la nostra no.

Tutte le scuole superiori vuoi dire, dove hai sentito di  una scuola media chiusa?

Ho sentito che anche una scuola media fa sciopero.  

Ma dove l’hai sentito?

Te lo stai inventando.

È che discussioni così potevano durare tutta una sera, fino a tirare tardi, tanto tardi da essere sgridati a casa. Ma come  potevi  dire a tua madre ho fatto tardi perché stavamo discutendo sui destini del mondo, perché per te quelli erano i destini del mondo, il ‘tuo’. Quelli almeno ti sembravano. Il fatto era che nessuno voleva tornare indietro sulle proprie posizioni, e si continuava all’infinito con invenzioni sempre più grosse per rimediare alla piccola e banale invenzione iniziale. Poi si finiva per stanchezza, senza vincitori né vinti e ognuno restava apparentemente convinto delle cose dette. Ma quella sera no. La serata, quella serata,  a metà ottobre, come sempre mite, prese altre pieghe. Fu Gaetano-naddeo, il più veloce tra noi, a farla andare così. Era più grande di poco, ma di anni ne dimostrava molti  di più, aveva già il motorino, forse, anzi sicuramente,  era già andato anche a puttane, insomma aveva il quid in più che noi non avevamo. Stava alla scuola media ma era stato bocciato tipo tre volte, quella sera era una rarità averlo con noi. Aveva sempre altro da fare.

Disse:

Volete vedere come  domani facciamo sciopero e non andiamo a scuola? 

Sì, e come facciamo?

Aspettate un momento.

Gaetano-naddeo abitava a duecento metri dalla scuola. Lo vedemmo allontanarsi quasi di corsa, non so bene se è solo nella mia immaginazione che lo vidi zoppicare mentre si allontanava. Non mi ricordo, e non so ricostruire a dovere, se era già caduto dalla moto o doveva ancora passare qualche anno per l’incidente che lo menomò. Di fatto, qualche anno dopo zoppicava per davvero, anche se leggermente. Comunque, zoppicando o meno,  arrivò dopo cinque minuti con  una enorme catena arrugginita e un grosso catenaccio.

Rideva con l’aria soddisfatta, come per dire ora vi faccio vedere io come si fa.

Mi sembra che furono  Fulvio e Gaetano-casolaro, altri due pazzi scatenati, a dirgli di nascondersi e di non farsi vedere, o almeno a non essere così plateale, ma lui se ne fregò. Mentre noi stando seduti sullo scalino già un po’ lo coprivano, lui infilò la catena alla base del cancello e la girò non so quante volte. Era lunghissima per un cancelletto che se spingevi un po’ di più si apriva senza problemi, anche senza chiavi voglio dire. A me sembrava che la catena lo tenesse più dritto di prima, ma posso sbagliarmi. Qualcuno disse, ma ti muovi? E di sbieco, non potevamo girarci perché dovevamo coprirlo, lo vedevamo mentre trafficava con catena e catenaccio. Rideva con gli occhi, stava facendo qualcosa di proibito, era felice di dimostrare quanto fosse più furbo di noi, più grande e più importante. Era uno spaccone, sfotteva sempre tutti, si sentiva già uomo. Ma quella sera chi se ne fregava?

Quando la mattina dopo, alle sette e mezza in punto, Pisciaturo, il bidello con la funzione di custode che aveva il compito di aprire la scuola prima dell’arrivo della preside e del segretario,   arrivò con la chiave già in mano, pronto per infilarla nella serratura, si trovò di fronte quel malloppo arrugginito che bloccava la base del cancello. E tutto per incanto si fermò. La novità lo gelò, gocce di sudore (freddo) gli imperlarono la fronte.

Poi arrivammo noi,  verso le otto;  allora si entrava alle otto e trenta. C’era una forte agitazione, il cancello era chiuso, i professori tutti fuori. Si vedeva Pisciaturo in grande affanno che spiegava a ripetizione,  a tutti quelli che chiedevano, la scena che si era trovato di fronte. Quasi la mimava, mimava lo stupore e la meraviglia del cancelletto incastrato dalla catena. A chi chiedeva chi sarà stato, diceva che lui non aveva visto niente, eppure abitava di fronte, a cinquanta metri, al di là della piazza. Ripeteva  me l’hanno fatta sotto gli occhi, non ci poteva pensare.

Ricordo il gruppo di professori e di bidelli fermi a non saper che fare. È il ’68 anche qui, no? C’è contestazione. Finalmente ci sta un po’ di agitazione. Non ricordo la preside, evidentemente arrivava sempre dopo. C’era invece la vice, la professoressa Giuliano, la quale più che indignata sembrava divertita e scocciata allo stesso tempo.  Dopo un po’ decisero, forse fu il segretario, di chiamare un fabbro e far saltare il catenaccio. Intanto si era fatta l’ora di entrare e tutti aspettavamo la campanella ammassati, come tutte le mattine, solo che questa volta eravamo un po’ più distanti. C’era stato qualcuno, qualche futuro agitatore,  che parlava di sciopero, di scuole in agitazione, si faceva l’esempio del liceo scientifico giù al Mercato o del liceo classico ad Ottaviano, due scuole occupate.  Poi, il timer scattò e  suonò il campanello delle otto e venticinque, quello dell’entrata degli studenti. E  tutti a ridere perché  il cancello era ancora chiuso, anche i professori si vedeva da lontano che facevano battute. Alla fine arrivò qualcuno, armeggiò alla base del cancello e dopo pochi secondi lo aprì. La catena finì miseramente nell’aiuola a fianco. Cominciarono da questo preciso momento i cinque/sei minuti di gloria dei ragazzi della scuola media San-giovanni-bosco di Somma.

Nessuno si mosse. Alcuni professori,  mentre entravano come se fossero su una passerella, si giravano indietro e si meravigliavano moltissimo di non essere seguiti a ruota dai ragazzi, ma come questi muschilli fanno pure sciopero? Il tempo, allora, si sarebbe dovuto fermare in quell’esatto attimo in cui si concentrarono l’indecisione, il timore di fare il primo passo, la voglia di non entrare e la sensazione intima di  partecipare al movimento di cui tanto si sentiva parlare. Ma il tempo è bastardino, non vuol saperne. E così  ritornarono fuori  la vicepreside e alcuni professori.

Che fate, fate sciopero?

Tutti in silenzio. Il fronte si ruppe quasi subito, a farlo rompere furono alcuni professori che  chiamarono direttamente per nome i propri alunni. Sette o otto con la testa bassa, quasi vergognandosi, ma anche un po’ liberati da quell’atmosfera carica di indecisione, per  primi varcarono la soglia ed entrarono. Poi una metà, tutti insieme, sempre con la testa bassa  a passare sotto lo sguardo dei prof. Rimanemmo un gruppo abbastanza folto. Così, immobili e silenziosi di fronte ai professori, a non saper bene che cazzo fare. Un prof. di religione, un prete, alto e grosso, di cui non ricordo il nome, gridava come un matto che avrebbero preso provvedimenti seri, la sospensione per quelli che facevano resistenza. Poi un altro chiamò anche lui  le sue classi:

La sezione D per favore, non fate i cretini,  entrate. Quelli, mogi mogi,  entrarono.

Voi non c’entrate con lo sciopero, non siamo alle superiori, diceva stizzita ormai la vicepreside.

Se entrate adesso non succede niente, altrimenti, sospensione. Urlava il prete.

Alla fine, pian piano, a gruppetti o singolarmente, la defezione continuò inesorabile. Eravamo rimasti in dieci. Ci guardammo, che facciamo? Gaetano-naddeo aveva trovato il modo di sgattaiolare dietro il bar di Don-alfonso a nascondersi. Lui non aveva problemi, sarebbe tornato a casa, avrebbe preso il motorino e via, a sfrecciare per le strade del paese, i suoi non gli dicevano niente. Ma noi? Come  avremmo fatto, cosa avremmo detto a mamma e papà? Fu Mimmo che alla fine  disse:

Ormai che facciamo, è meglio che entriamo.

E piano piano entrammo, sotto gli occhi soddisfatti della vice preside e del prete, che, quando passai io, non ero neanche l’ultimo e lui non era neanche il mio prof., mi diede uno schiaffetto dietro la testa e disse: Hiiii?!

 

Bollettino n. 3

La rivolta studentesca nel sessantotto aveva investito Berkeley, Berlino, Nanterre, Tokyo, Londra, Milano…e tutte le altre città e cittadine di mezzo mondo, fino ad arrivare come eco, come vento, al cancello della scuola media di Somma Vesuviana. La rivolta iniziata nei campus universitari americani si era trasformata in una protesta contro l’ordine sociale, la guerra, la famiglia, i valori della società borghese. Spontanea, gioiosa, libertaria e creativa, ma anche violenta, rivendicava “l’immaginazione al potere” e consacrò la nascita di una ‘controcultura’.

La ricostruzione storica del clima di allora può essere quella del giornale Il Giorno, nelle cui pagine un articolo di Sergio Turone allarma: “Scuola, si apre un anno difficile”. La vera e propria esplosione si ha all’inizio dell’anno scolastico…, e non era difficile da prevedere. Comunque quell’esplosione è provocata o comunque amplificata dall’ottusità di docenti, presidi e provveditori che nei mesi precedenti sembrano aver chiuso completamente gli occhi e confidano ancora nei deteriorati strumenti della sospensione disciplinare, del voto in condotta, delle interrogazioni punitive. Ai primi di ottobre, ad esempio, al Liceo Plinio Seniore di Roma il preside ispeziona le classi e sospende sia gli studenti che hanno i capelli un po’ lunghi sia le studentesse che non hanno il grembiule nero, imposto dal regolamento della scuola. Contemporaneamente detta l’inno della scuola da lui composto, per farlo imparar bene a memoria: “Pur se il capo grida e burbero minaccia / ci è guida saggia e esempio di lavor./ Pur se i professori con algebra e latin / rompono i nostri verdi cuor / domani l’ombra dei ricordi / vecchio liceo a te ritornerà”. Roma, ottobre 1968. Ai giornalisti attoniti il preside dichiara: “La scuola prima di tutto deve educare all’esteriorità. Poi questi ragazzi devono avere una spina dorsale dritta. Non ammetto deroghe”.  (1)

Quanti passi indietro deve fare l’umanità per la rincorsa della speranza?

 di Francesco Di Lorenzo

 

Note

1) Guido Crainz – Il Paese  Mancato – Donzelli 2003, pag. 272.

 foto di germeister

 

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