L’ombrello che voleva volare

ombrelliTutti abbiamo una passione. Chi per la pittura, chi per lo sport, chi per le donne, chi per il vino o chi, semplicemente, per non far niente ma tutti ne abbiamo una. Quella di Kempt era il volo. Una passione che lo divorava come un fuoco alimentato dal vento. Quando alzava gli occhi al cielo e vedeva gli aerei o gli uccelli sentiva una cosa dentro che non sapeva spiegare, una specie di commozione mista a invidia. Si perdeva allora nella profondità di quel cielo e immaginava di volare: sentire il vuoto sotto di sé, l’aria fresca sul volto e il rumore del vento negli orecchi. Ma sempre, quando faceva questi sogni, sentiva una vocetta che gli diceva: «Kempt, gli ombrelli non volano».  Allora diventava triste. Non per questo però si arrendeva. Continuamente pensava a qualche modo per realizzare il suo sogno. Alla fine s’era convinto che se ci voleva riuscire aveva bisogno di un uomo. Da solo non ce l’avrebbe mai fatta. Ma non era facile trovarne uno con una passione così forte. Per questo ne aveva cambiati tanti. Sì, perché era lui a cambiarli. Gli uomini, stupidamente, pensano che siano loro a perdere gli ombrelli. Niente di più sbagliato. Sono gli ombrelli a perdere gli uomini. E lui ne aveva persi tanti. Ormai non ne teneva più il conto. Il primo era stato un giovanottone alto e grosso come un armadio. Perderlo fu un gioco da ragazzi. Un giorno, nello spogliatoio della palestra, senza farsi scoprire, s’era infilato sotto un armadietto e se l’era bello e tolto dai piedi. L’aveva trovato dopo una settimana la signora delle pulizie. Alla donna non era parso vero di fare quella scoperta, con quello che costano gli ombrelli. A dire il vero, in un primo momento aveva pensato di consegnarlo in direzione ma poi, considerando il misero stipendio che percepiva, l’aveva ficcato nella borsa e se l’era portato a casa. Lo aveva dato al marito. Un operaio in cassa integrazione prossimo al licenziamento. Nella testa aveva solo bollette da pagare e pensieri neri come il carbone. Di volare non se ne parlava proprio. Alla prima occasione, Kempt se l’era svignata. Lo aveva fatto in metropolitana, approfittando della confusione. A trovarlo fu un ragazzetto delle medie con la passione degli aereoplanini. «Forse, è la volta buona», pensò Kempt, ma quello stesso pomeriggio ebbe una cocente delusione. Il ragazzino lo portò con sé nel cortile, dietro al parcheggio condominiale, e salito su un terrapieno cominciò ad esibirsi in pericolosi salti usandolo a mò di paracadute. Roba da lasciarci le penne. Per fortuna la madre del ragazzo, la signora Gina, verso le cinque lo aveva fatto rientrare, dal momento che non aveva fatto ancora i compiti. Lui ne approfittò e si nascose sotto un’auto parcheggiata. Quel giorno pianse per la rabbia,  ma non si arrese e provò ancora a cercare. Portieri d’albergo, manager disoccupati, autisti di linea, politici, fruttivendoli, trombettieri … perfino un trapezista del Circo. Niente. Di persone che volessero volare, neanche l’ombra. Ci aveva quasi rinunciato quando un giorno (era su una panchina del parco in attesa del solito pollo) si sedette vicino a lui un tipo sulla cinquantina, pelato, con pancia e occhiali a culo di bicchiere. Kempt, cercò di scappare ma ormai era troppo tardi, l’uomo l’aveva già in mano. Lo aprì, verificò che non avesse buchi e che funzionasse bene, poi, dopo essersi guardato intorno con aria circospetta, si alzò e lo portò via. Fecero pochi passi quando cominciò a scendere una pioggerellina leggera. Gustavino, questo era il nome dell’uomo, lo aprì con l’espressione felice di un bambino davanti a un uovo di Pasqua.  Fu allora che Kempt si accorse che si erano alzati di qualche centimetro. «Avrà saltato qualche buca», pensò e si rituffò nei suoi pensieri di depressione. Ma dopo un po’ si accorse che quei centimetri aumentavano sempre di più. Abbassò lo sguardo. Incredibile. Si erano alzati di almeno due metri. Kempt non credeva ai suoi occhi. Volava! Volava sul serio! Le case sotto di loro diventavano sempre più piccole. Le persone puntolini neri.  Le macchine piccole scatolette colorate. Per un momento ebbe quasi paura. Al contrario Gustavino era tranquillo come se volare fosse la cosa più normale del mondo. E intanto l’altezza aumentava sempre di più. Dopo un pò superarono perfino le nuvole.  Il cielo cambiò colore. Aveva adesso una sfumatura di azzurro che non avevano mai visto. Rimasero ammutoliti davanti a quella visione paradisiaca. Poi, dolcemente, cominciarono a perdere quota e ritornarono allo stesso punto da dove erano partiti. Solo che era tutto diverso. Non era come da poco l’avevano lasciato. La città era ritornata ad essere come cinquanta anni prima. Tutte le costruzioni più recenti non c’erano più e al posto del parco c’era il vecchio Lanificio De Rossi con i suoi immensi spiazzi per asciugare la lana. Gustavino e Kempt si fermarono sul marciapiedi di fronte all’entrata principale. Pioveva a dirotto. Davanti al cancello c’era una ragazza ferma. Aveva sui vent’anni e un’espressione felice sul volto.

«É mia madre», disse Gustavino.

Kempt guardò meglio. Notò che era incinta.

«Sì, quello sono io», confermò l’uomo intuendo i pensieri dell’ombrello e sorrise.

Attraversarono la strada e si avvicinarono alla ragazza.

«Vuole che l’accompagni?», le chiese Gustavino. «Si sta bagnando tutta, nelle sue condizioni può essere pericoloso».

La ragazza lo guardò un attimo indecisa, poi accettò.

«Grazie, lei è molto gentile ma non voglio disturbarla troppo, basta che mi accompagni alla fermata del tram».

«Nessun disturbo, si figuri».

Gustavino era emozionato ma cercò di assumere un atteggiamento distaccato.

«Di quanti mesi è incinta?»

«Quasi cinque» rispose la ragazza con gli occhi che le brillavano. Istintivamente si passò una mano sulla pancia. «È un maschio», aggiunse.

«Come fa a saperlo?»

«Me lo sento… e poi, la pancia è a punta».

«Io non ci credo a queste cose».

«Lei, non ha figli?»

«Sì, una. Si chiama Elena».

«Che combinazione», esclamò la giovane «anche io mi chiamo Elena».

Gustavino sorrise senza dire niente mentre una piccola lacrima si affacciava timidamente dal suo occhio sinistro. L’asciugò con fare indifferente come fosse una goccia di pioggia. Nel frattempo erano arrivati alla fermata del tram.

«Ecco, sono arrivata. La ringrazio tanto», disse la donna.

«Di niente», disse Gustavino trattenendo a stento un groppo alla gola. Poi lui e Kempt si avviarono per la loro strada. Alla prima curva, quando ormai non si vedeva più la fermata del tram, ripresero, piano piano,  ad alzarsi in volo …

 Ferdinando Gaeta

“L’ombrello che voleva volare” fa parte dell’antologia “Dei trenta e più modi di perdere l’ombrello” edito da Homo Scrivens, 2014


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