Il trucchetto dell’art. 18

– Questa riforma del lavoro fa acqua da tutte le parti, – sbuffò il Presidente, lasciando cadere il fascicolo sulla scrivania.

– Ho scritto le cose che mi ha detto lei, – rispose timidamente Manfredi, segretario del sottosegretario del Ministro.

– Ma no, ma no,  caro Manfredi, lei non ha capito niente.

 

– Guardi Presidente, non voglio contraddirla, per carità,  ma sono le cose che mi ha detto lei. Veda, ho ancora qui i suoi appunti.- Estrasse dalla tasca interna della giacca due fogli protocollo scritti fitti fitti e glieli porse, – Legga lei stesso.

– Non c’è bisogno, so bene che ho detto.

– E allora, cosa ho sbagliato?

– Il modo, santiddio, il modo. Come ha scritto lei se ne accorgono tutti… Troppo evidente, troppo chiaro. Se domani i lavoratori leggono questo documento succede la rivoluzione, lo capisce o no?

– …ma… ma… pensavo…

– Lei non deve pensare,- urlò il Presidente, – lei non è qui per pensare.

Manfredi si fece di mille colori. Avrebbe voluto sprofondare mille miglia sotto terra. Per fortuna in quel momento bussarono alla porta.

– Chi è?- sbottò lo statista.

Per tutta risposta la porta si aprì ed entrò la Ministra.

– Che succede Pippo?- chiese la donna senza neanche salutare. Il Presidente fece un colpetto di tosse per ricordarle che in pubblico non voleva essere chiamato Pippo. E’ vero che avevano fatto il liceo insieme, ed era pur vero che lei gli aveva passato la versione di latino all’esame di stato, ma adesso non era più il caso di chiamarlo così, soprattutto davanti ai sottoposti.

– Allora, che succede?- inclazò lei.

– Guarda tu stessa,- disse lui e le allungò il voluminoso fascicolo.

Lei lo prese, si sedette sul divano di fronte alla scrivania, accavallò le gambe e cominciò a spulciarlo.

– Cosa c’è che non va? – chiese dopo un pò, – C’è tutto quello che abbiamo deciso nella riunione…

– E’ troppo evidente, ecco cosa c’è, – sbottò il Presidente, – così se ne accorgono tutti.

– E va bene,- disse lei, – vorrà dire che useremo il trucchetto dell’art. 18.

– Di nuovo? E’ vecchio, lo hanno fatto un sacco di volte.

– E allora? Pure delle telenovelas hanno trasmesso migliaia di puntate eppure la gente continua a guardarle.

– Dici?- fece lui, già rabbonito.

– Ma certo. E’ semplice. Riesce sempre. Noi diciamo che vogliamo togliere l’art. 18. I sindacati sono costretti a fare sciopero. Tutti parlano solo di questo  e quando alla fine faremo finta di capitolare saranno costretti a firmare tutto l’accordo per intero. Nessuno si accorgerà di niente, tranquillo.

Il Presidente la guardò ammirato. Che grande donna, pensò. Le era sempre piaciuta. Ai tempi del liceo le aveva sbavato dietro per mesi ma non c’era stato nulla da fare. Per un attimo provò ad immaginarla mentre faceva la doccia. Ma fu solo un attimo. La nazione lo chiamava a pensieri più importanti…

 

In quello stesso preciso momento Susanna Tuttapanna era ai giardinetti pubblici col nipotino Andrea. Aveva approfittato di quella ora libera, sfuggita chissà come all’agenda dei suoi collaboratori, e aveva deciso di stare un pò col bambino. S’era infilata i  jeans, un vecchio maglione, e via. Per un pò si sarebbe distratta e non avrebbe pensato agli impegni immani che l’attendevano.

– Nonna, mi compri il gelato?- chiese il piccolo.

Lei stava già per dire di no ricordando che la figlia le aveva raccomandato di  non comprargli niente altrimenti a pranzo non mangiava più. E invece, stranamente, fece tutto il contrario. Chi se ne frega, pensò, per una volta tanto voglio anche io trasgredire le regole e godermi la vita.

– Vabbè,- disse al bambino, – ma non lo dire alla mamma.

– Sì,- urlò lui saltando per la gioia, – lo voglio grande  grande.

Andarono al chiosco e comprarono il gelato. Anzi due. Uno panna, cioccolato e pistacchio per Andrea e uno limone e fragola per lei.

– Quant’è?- chiese una volta servita.

– Quattro euro,- rispose il barista. Un giovane sui trent’anni con la carnagione scura tipica dei meridionali.

Susanna nel mettere la mano nella borsa si accorse di aver lasciato il portafogli a casa.

– Mi dispiace,- mormorò imbarazzata, -ma credo di aver dimenticato i soldi a casa…

Il barista la guardò perplesso. Quella donna aveva un volto conosciuto ma non sapeva dire dove l’avesse vista. Forse alla  Caritas dove faceva il volontario nel tempo libero. Chissà…

– Mi dispiace, mi dispiace.- continuava a mormorare lei.

– Dicono tutti così,- disse rassegnato l’uomo.

– Ma cosa ha capito?- fece lei. Poi, rivolta al nipote, – Andrea posa subito il gelato.

– No, no, il gelato è mio, è mio – gridò il bambino e cominciò a piangere.

Il barista la guardò ancora. Proprio non riusciva a ricordare dove l’aveva vista.

– Fai una cosa, – le disse scuotendo la testa, – per questa volta vattene ma non farti vedere dal padrone altrimenti mi licenzia. Capito?

Lei avrebbe voluto rispondergli che si sbagliava di grosso che non sapeva con chi aveva a che fare, ecc. ecc.  Ma l’imbarazzo era così grande che non riuscì a dire niente.

– Vai, vai,-  le sussurrò ancora l’uomo, – e non farti scoprire che mi fai passare un guaio…

Susanna si allontanò piano mentre il bambino, nel frattempo, s’era fatto scivolare tutto il cioccolato del gelato sulla maglietta. Fu allora che squillò il cellulare.

– Susanna, vieni, il Ministro ha fissato l’incontro,- disse una voce d’uomo dall’altro lato.

– Bene… molto bene,- rispose lei e una strana luce le illuminò il volto.

 

di Ferdinando Gaeta

 

 

 

foto di Gianfranco Goria

 

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