C’era una volta una gatta

E’ passato un secolo da quando, una mattina, sul marciapiede davanti alla galleria Umberto a Napoli, di fronte al teatro S. Carlo, io,  Peppe Brillante,  vidi camminare davanti a me un uomo smilzo, con un paio di pantaloni blu a zompafuosso (saltafosso), una maglietta grigia tutta mazzecata (poco stirata) e una cartellina zeppa di fogli in mano. Quella mattina l’uomo smilzo non aveva avuto tempo o voglia di far passare i suoi capelli attraverso i denti di un pettine e aveva i calzini bucati. Il buco dei calzini diventava ancora più evidente quando la gamba del pantalone (a zompafuosso) era quella che andava avanti, nel passo. E i calzini erano chiari. Il buco sul calcagno era enorme.  Io ero in una delle mie giornate abituali per quel periodo. Più o meno incazzato e in attesa di eventi che non venivano o, se pure venivano, li guardavo piuttosto indifferente. Nel frattempo,   per tenermi informato (per darmi un’aria) leggevo attentamente  le terze pagine dei giornali. Sono  un operaio ma mi interesso di cultura. Ammesso che la cultura passi attraverso le terze pagine dei giornali.

Ad ogni modo, l’uomo che mi  camminava davanti poteva avere più o meno cinquant’anni  e aveva dei tratti conosciuti. Era un personaggio in qualche modo pubblico, riconoscibile.  Infatti, era il maestro De Simone, Roberto De Simone, musicista e musicologo, fondatore del gruppo ‘Nuova Compagnia di Canto popolare’, autore di opere come La gatta Cenerentola e tantissime altre,  iniziatore della riscoperta delle tradizioni popolari campane (aveva raccolto in una serie di microsolchi i canti e le musiche poco note e sperdute della tradizione regionale e aveva donato loro nuova linfa e nuova vita). Le sue elaborazioni musicali erano e sono considerate di altissimo livello. In quel periodo era direttore artistico del teatro S. Carlo.

Tanto per dire (per dicere), e per intenderci afferrando qualcosa in più,    avevo letto in una terza pagina una dichiarazione del maestro Muti, il grande direttore e maestro Riccardo Muti,  nella quale diceva che solo in Italia poteva succedere che un’opera così bella e popolare come La gatta cenerentola del maestro De Simone, non fosse diventata una specie di monumento nazionale, un’opera ancora più conosciuta di quello che era. Perché lo meritava.

Certamente Muti non aveva usato proprio pari pari  queste stesse parole. Ma,  il senso era quello, su questo so’ sicuro, non transigo. Me lo ricordo, so’ pronto a mettere la mano sul fuoco.

E allora?

Mo’ che vuoi?

Qual è la conclusione? Potrebbe dire il solito mestierante detrattore.

Al che rispondo che non c’è nessuna conclusione.

La storia (‘a storia mo’) finisce così e basta.

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di Francesco Di Lorenzo

 foto iniziale di aquila460

 

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