Il capucchione

sivoriQuando la vecchina tirò su la manica della camicetta per il prelievo di sangue, notai che aveva uno strano tatuaggio sull’avambraccio destro: una specie di cerchio e una scritta che si perdevano tra le pieghe della pelle avvizzita. Guardai meglio. Era un pallone “santos” con sotto scritto el pibe de oro.

– Grande Maradona, – dissi io, d’impulso.

– Sì, grande Maradona, – rispose lei – ma questo tatuaggio non l’ho fatto per lui.

– No? E per chi?- chiesi curioso.

– Per Sivori.

– Sivori? Non è possibile. Lo chiamavano el cabezòn, non el pibe, – ribattei orgoglioso della mia cultura calcistica.

– No, no, il primo ad essere chiamato così fu Sivori. Lo so bene. Quando arrivò a Napoli nel 1965, alla stazione di Mergellina c’ero anche io con i  miei fratelli. Era pieno di cartelli con su scritto “el pibe de oro”. Lo ricordo come se fosse adesso. Fu dopo, molto dopo,  che lo chiamarono el cabezòn  per via dei capelli, ma io l’ho sempre chiamato capucchione.

– Lo avete conosciuto?

– Certo. Sono stata la sua cameriera fino a quando non è tornato in Argentina. Una volta gli ho anche salvato la vita.  Lo conoscevo come le mie tasche.

Guardai la donna senza parlare. Lei capì subito quello che avrei voluto chiederle.

– No, niente di quello che state pensando. Non ero la sua amante. Ero soltanto la sua cameriera. Cameriera, e basta!   E sapete perché? Perché ero brutta. Pesaola mi aveva offerto quel lavoro proprio per questo.  Ma a me non importava. Avevo bisogno di lavorare, a casa mia c’era la fame. E poi lui era il mio campione preferito.  Per di più mi prese subito in simpatia. Che volevo di più? E così, un po’ alla volta,  da cameriera divenni confidente, amica e…  balia come diceva Altafini, l’unico compagno di squadra con cui andava d’accordo.

Nel frattempo, la vecchina aveva steso il braccio sul tavolinetto. Con delicatezza le misi l’ago nella vena. Aveva le vene trasparenti, bluastre,  tipiche delle persone anziane. Usai tutta la mia attenzione. Il sangue lentamente riempì lo stantuffo della siringa. Quando arrivò al numero dieci della scala graduata, tolsi l’ago dalla vena con una mossa decisa come quando un samurai estrae la spada dalla pancia del nemico. Presi un po’ d’ovatta e gliela poggiai sul microscopico buco. Riempii le quattro provette che tenevo già pronte sul tavolinetto. La donna, controllò che non uscisse più sangue dalla vena e poi con gesti misurati srotolò la manica della camicetta.

– Sivori, aveva la testa dura e stava sempre incazzato, – riprese a raccontare sospirando. – Due cose che messe insieme fanno saltare in aria le montagne.  Come se non bastasse, gli piacevano le donne.  E non guardava in faccia a nessuno. Quando s’incaponiva per qualcuna non c’erano versi, doveva essere sua.  Anche se questa “qualcuna” era la moglie di “qualcuno”, voi mi capite, vero?

Io annuii senza parlare. La vecchia  finì di sistemarsi e continuò.

– Una volta perse la testa per una donna che abitava ai quartieri spagnoli. Si chiamava Carmela Filoscia. Zigomi alti, seno prosperoso, gambe come due colonne. Aveva le sette bellezze. Sfortunatamente però, oltre alle sette bellezze aveva anche un marito camorrista. Io tremavo al solo pensiero di quello che poteva succedere. Cercavo in tutti i modi di dissuaderlo: «Capucchiò,  lasciala stare. Quella non è per te, va a finire che ti ritrovi in qualche guaio»  ma lui niente, capa tosta. E successe che un infame se ne accorse e fece la spia al marito. Un pomeriggio venne a bussare alla porta dell’appartamentino ai Camaldoli.  Guardai nello spioncino senza aprire. Non ci volle molto a capire chi fosse. Aveva la faccia del criminale. Stava insieme ad altri due delinquenti come lui. Corsi in camera da letto. Carmela era bianca come uno straccio. «Pernacchia, hai visto che hai combinato?» le gridai mentre raccoglievo da terra i suoi vestiti «Scappa dalla finestra e prega Dio che non ti veda nessuno» I tre cominciarono a tempestare la porta di calci e pugni. Ma io non aprivo per dare a Carmela più tempo per sparire. Mi spogliai e mi misi nel letto al suo posto. Sivori mi guardò inebetito. Io lo fulminai con un’occhiataccia come a dire “Non fiatare”. Un attimo dopo sentimmo la porta che si apriva con un boato e i tre che schizzavano dentro uno dietro l’altro come siluri. Il primo ad entrare, il più  grosso di tutti, aveva un coltello in mano. Quando si accorse che c’ero io nel letto e non Carmela rimase di stucco. Ancor di più quando capì che quel ragazzo mezzo nudo era il grande Sivori. Così pure gli altri dietro di lui.

– Che volete?- gridò il campione. – Chi siete?

– Uno dei tre bisbigliò qualcosa agli altri due. Si guardarono tra loro come allocchi.

– Scusate,- balbettò quello col coltello, – abbiamo sbagliato persona.

– Uscite subito, – gridò Sivori, – altrimenti chiamo i carabineros.

– Scusate, scusate, cercavamo un’altra persona, ci hanno informato male.. scusate, scusate e … forza Napoli…

– Uscirono con la coda tra le gambe. Tirai un sospiro di sollievo. Prima però che alle loro spalle si richiudesse quello ch’era rimasto della porta, sentii uno di loro dire scandalizzato: «Avete visto che racchia? Eh, stò Sivori … sarà pure un grande campione, ma di femmine non capisce niente.»

di Ferdinando Gaeta

forza napoli

“Il capucchione” è tratto da “Forza Napoli, una vita in azzurro” a cura di Aldo Putignano, Giulio Perrone Editore, Roma 2013.

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